L’Alcibiade fanciullo a scola (Texte intégral – 1)
(Texte original d’Antonio Rocco, 1652.)
Li antichi filosofi, o lettore, nell’insegnare ai loro discepoli l’uso di belle lettere, incomminciavano da bel principio a cacciarli la loro scienza per lo buco di dietro. E dicevano loro che in modo tale sarebbero riusciti perfettamente dotti, quando per questa via ricevessero la virtù dei loro precettori.
Ma se mai il mondo è stato prodigo di vizii nelle scole, ora si può chiamare col non plus ultra. È arrivato a termine, dico, che può dirsi teatro d’obbrobrii, scena di vituperii e albergo di tutti i vizii; i precettori in questi tempi osservano l’istesso uso degl’antichi nell’insegnare a fanciulli. E se averai di ciò osservato, da molti avrai inteso dire che dall’ingordigia del maestro, nell’infondere le sue scienze nel discepolo, e per fretta, li hanno il piú delle volte rotto il ricettario.
Tu dunque, mentre leggerai la scola d’Alcibiade, conoscerai il modo per far perfetti nelle scienze i tuoi figlioli, levandoli da maestri di Sodoma. E vivi felice.
Udite o voi, maestri babuassi,
che la scienza per lo cul cacciate
a fanciulli da scola, e mai non fate
che riponer ne l’ano i vostri spassi.
Pitagorici infami, radagassi,
vi vuo’ chiamar, che con vostre sfacciate
maniere, ognor in tondo rimirate,
come se ’n vulva non vi fusse chiassi.
Sentite il gran maestro, arcipoltroni,
che scuopre omai vostre poltronerie,
onde taglievi il cazzo, o buffaloni,
che se sentite un putto in allegrie,
che dica cazzo, over dica coglioni,
le fate in cul intrar tal villanie.
Capitatomi a caso questo libretto, o lettore, ho voluto inviartelo in stampa, parendomi curioso e degno della tua lettura. Da questo potrai imparare a ben invigilare a’ tuoi figlioli, per sottrarli dalla malvaggità de’ cattivi e pessimi maestri, li quali in questi tempi abbondano.
Ti prometto in breve la seconda parte, intitolata il Trionfo d’Alcibiade, che tanto piú sarà curioso, quanto che è parto della piú dotta penna di questo paese. Attendila quanto prima. E voglimi bene.
Era il fanciullo Alcibiade di quella età appunto, in cui la natura industre, con piacevoli scherzi, sotto sembianze divine, confonde con maraviglie amorose il sesso feminile. E di donzella tal era forse allor Ganimede, quando ebbe forza di tirar Giove dal cielo in terra, per rapir lui dalla terra al cielo. È termine questo tra gl’uomini e tra gli dei, archivio di tesori inesausto, in cui ognun ritrova quello che nelle delizie d’amore piú si desia; bersaglio amoroso di due prospetti, all’un de’ quali corrono a gara le fanciulle anelanti, all’altro precipitano idolatri e riverenti i piú dotti e li piú savii.
Tal era dico allora, quando dal provido consiglio de’ suoi tuttori fu destinato alle scole. Eletto a sí fortunato officio fu tra molti Filotimo: questo, d’età virile, venerabile d’aspetto e di maniere, con tal misura aggiustava l’opre della mente e del senso, che con incomparabile prudenza e providenza si rendea grato; sapea trasformarsi con tutti, e nell’infonder soda e profonda dottrina ne’ petti altrui, mostrava che ne aveva vera intelligenza dell’operare.
I principali d’Atene ambivano di commetter alla sua fede, di soggiogare al suo impero i piú cari pegni dell’anime loro, le sue imagini ritratte al vivo dalla natura, i suoi dolcissimi figli. Avevano la sicurtà dagl’eventi negl’altri, la certezza della sua fama. Già non era in quel tempo chi degnamente tra giovani sapesse, che non avesse bevuto nella fonte limpidissima di questo gran uomo.
A questo dunque fu condotto Alcibiade, e con modi di libertà civile n’ebbe il possesso magistrale. All’apparir di questo novello sole, la bellezza di tanti altri fanciulli, che quivi erano, languí e perse il suo lume e la stima, come fanno le stelle nell’aggiornarsi. Diana tra le sue ninfe ne’ boschi non è cosí cospicua e riguardevole, né Cerere apportò tanto splendore di grazia ne’ regni stigii, come fece questo allora in quel loco.
Egli, con leggiadra e agile disposizione della persona, con moto regolato e spedito, mostrava di non moversi ad altro fine che per aprir i cori, per impossessarsi dell’alme. I crini inanellati, ridotti in forma di fiori, cadendo con ordine distinto sopra le spalle, facevano scorno nel paragone alla porpora, all’ostro e all’oro. Gl’occhi, rinchiusi nel vello di due ciglia, inescavano sotto il regal padiglione delle palpebre, vergate d’avorio e di rubini, di color ceruleo, illustri di proporzionata grandezza; maestevolmente grati scoccavano piú dardi d’amore a riguardanti che non prendevano imagini dagl’oggetti ch’essi miravano. La fronte di maestà spaziosa mostrava un sereno celeste nella piú bella aurora di primavera. Le guance miste di cinabrio e di latte, in un ritondo ovato e ben pieno, asperse di ligustri e di rose, superavano le vaghezze degl’ameni giardini di Tempe. Il corallo animato che in quelle labbra divine rosseggiava, con giusta tempra, avrebbono (potentissima calamita d’amore) attrato ai baci le statue inanimate, e gli avrebbe data l’anima e vita con essi. Le perle orientali, che in ordine di dorica architetura splendeano in quella bocca divina, lambite vezzosamente da un purpureo ristretto lenguino, invitavano non le api a trarne favi di miele, ma i dei del sommo cielo a pigliarne ambrosia di paradiso, e a cavarne materia di cera per uno degl’eterni loro gloriosi fuochi, onde averebbono fatto scorno alle stelle. Il naso, che a giusto profilo scendea maestevole sopra la bocca, ornamento pregiato del viso, compimento di vera bellezza, simbolo de’ piú gradite parti recondite e per se stesso mirabile, e nel mistico sembiante augurale con nari di artificioso e vago intervallo, con rivoleto cinto di piccioli arginetti di latte, sin all’estremo del labbro superiore dava non mediocre decoro all’eccelso della sua grazia. Né il candidissimo collo riceveva oltraggio nella comparazione dell’altre membra ignude, già che pieno, ritondetto e vermiglio, non longo né dimesso, vergato di vene vivaci, era convenevole base alle sopra umane fatezze del viso. Le mani corrispondenti al resto, attilatamente ripiene, longhette, morbide e con deti tornatili, davano indizii espressi di poter or trattare soavemente l’armi d’amore, ma piú mature e piú forti gli stromenti fieri di guerra. Le altre membra ricoperte dall’invida veste, che con opporsi al desiato sguardo davano occasione e arra al piú cupido senso di contemplarne i penetrali e d’immergersi piutosto con l’opre, che con il pensiero, non cedevano punto alle sudette, anzi con regolata simetria, se ben ad altr’uso, ad altro diporto, ciascuna di esse in qualche modo alle predette corrispondeva: il petto alla fronte, i pomi alle guance, il genitale al naso, il giardinetto alla bocca, il mento all’ombelico, i piedi alle mani, le cosce alle braccia, il profilo del volto al ventre, e il colore ai colori.
Ma la gioia inestimabile di questo tesoro era l’angelico della favella: egli con voce tanto soave esprimeva prontamente i caratteri delle parole, con pause cosí ordinate terminava i periodi del ragionare, che a guisa di sirena incantava gl’animi di dolcezza, non per privarli di vita, ma per tormentarli, vivendo, d’amore. All’aprirsi di quella bocca celeste, s’aprivano stupide e ammaliate le bocche de’ circostanti, esalavano l’anima per dargli piú grato albergo con l’anima sua; l’umana favella di articolate note ha forza insuperabile di vincer anco le bestie e far sensati i sassi, come s’allude ingegnosamente d’Orfeo e d’Anfione. La lingua d’angelico sembiante è fulmine ch’abbatte i cori, catena che in pregionia d’amore fa perpetui i legami dell’alme. L’abito puerile, con toga contesta di varii fiori, col vivace de’ colori brilanti, partorirà le maraviglie che dalle nubi rugiadose apportano i raggi di Febo, apporta novo apparente sole alle menti degl’uomini idioti. Il riso modesto e giocondo era il tesoriera delle grazie, nonzio fedele d’amore e giardiniera de’ gaudii. La grazia, dono immortale di Dio, come non conosciuta dai sensi, non esplicabile dalla voce, cosí appresentata alla mente l’atrae con soavissima volontà, la fa cattiva e non impiamente idolatra, e vigilando con questo divino impronto le bellezze supreme, di umane le rende celesti e divine.
Questo novo Cupido, questo angeletto del paradiso consegnato da’ suoi ruttori al maestro, fu da lui con maniere civili tirato dagl’altri in disparte; e doppo averlo cupidamente mirato gli parlò in questa forma:
– Al aspetto vostro regale, alla grazia vostra divina, gentilissimo mio fanciullo, si piega con prontezza e umiltà non ordinaria l’animo mio. E se all’ardente mio desire tirato in piú intimi officii dai meriti vostri risponderà il vostro volere, con straordinarie prove saranno effetti di maraviglia, quasi che dal mio informarvi e dalla vostra capacità si vedranno non degenerate. Vi prego pertanto dall’indole elegantissima che mostrate, ch’io piú affettuoso che padre, piú sollecito che precettore, inserirò nella vostra retentiva semi non usati naturalmente di dottrina feconda e dilettevole. E il rigore, che per dovuta riverenza inserisco ne’ petti degl’altri fanciulli, al primo arrivo di essi, in voi sia arra di confidenza e di piacere. Ecco onestamente vi bacio, eccovi il pegno del affetto mio, della vostra libertà –.
Non appariscono mai tanti colori nell’iride, né si orna di tanti fiori un prato a mezo aprile, di quanti s’ornorono le guance del fanciullo in quel atto. Pure, come che il rigido naturalmente dispiace, e il piacevole aletti e lenisca, con aprir il tesoro delle sue gioie, gradi cortesemente l’affetto del precettore. E fuggando il timore che ingombra le menti de’ putti novelli ne’ principii delle loro scole, ne concepí pensieri liberi e confidenti.
Non mancava tratanto la diligenza del maestro, né men la prontezza del fanciullo, ai dovuti officii di scola, ma erano per lo piú privati, e in stanze separate dagl’altri.
Cosí conveniva ai dissegni, all’interesse, all’impresa del maestro. Già il bolzone che aveva ricevuto nel core dal impeto incomparabile di Cupido, con influssi incomprensibili inaffiato, era germogliato e cresciuto tanto sproporzionatamente davanti, che se non gli dava il trapianto nel ameno giardino del putto lo tirava sino alla morte. Per castigo che nelle sue composizioni talora meritava il fanciullo, gli dava soavi baci il discreto precettore.
– Ecco – soggiongendo in un tempo – come s’insegna a pari vostri, gentilmente. I schiaffi e le battiture agl’altri, con trasformazione di maraviglia, dal maestevole del vostro viso si risolve in amorosi baci. Cosí ricerca il dovere de’ vostri meriti, il discreto de’ vostri costumi. Graditelo, dunque, o figlio, non vogliate degenerare dalla nobiltà de’ vostri antenati. Non macchiate l’anima vostra regale col sordido di vilissima ingratitudine: ribaciatemi, anima mia –.
Al che, pronto, l’amoroso fanciullo feriva e sanava insieme le piaghe del trafitto maestro con baci ch’apportavano morte di dolcezza immortale.
– Non sono – soggionse il maestro – baci d’amicizia leale e sicura quelli che quasi forastiero e nemico non si ricevono dentro la bocca: gli amici si conducono in gabinetto. La lingua primiera baciatrice vuol entrar nella bocca de chi è fedelmente baciato. Ivi è il suo albergo, quello è il suo fine baciando. Contentatimi figlio, date compimento non manchevole all’opera, sporgetimi quella lingua divina. Ecco, ecco, la prendo –.
Risospintosi alquanto adietro a questo novello assalto, il fanciullo divenne pallido e tremante. Il maestro, pur rincoratosi alquanto:
– Non temete – ripigliò – figlio, che non offende la lingua in bocca; è ben causa di ruina tallora, quando baldanzosa oltre i confini del giusto scorre di fuora. L’eloquenza che dalla mia dottrina attendete, investigatavi con diligenza da’ vostri tuttori, apparecchiatavi con fedeltà da me, è impossibile conseguirla se non fia la vostra lingua congionta alla mia. La mano porge industria alla mano, la mente alla mente, e alla lingua la lingua. Accostatevi, accostatevi, o mio caro tesoro –.
E presolo nel istesso tempo nel seno, le parole erano accompagnate e prevenute anco dai fatti.
Ebbe pienamente quanto bramava, si raccolse allora tutta l’anima sua nelle sue labbra, né altro era la sua vita che un bacio; e se dal fragante spirito del fanciullo, che soavissimo spirava nelle sue viscere, non fosse il spirito del maestro stato risospinto al suo loco, al suo officio, restava realmente esangue ed estinto. Ma per riferir i particulari casi distinti manca l’intelletto e la lingua. Anzi, cedendo la penna al suo carico, per adesso lascia l’incarco de’ cosí alti misteri all’altra mia penna viva, che da se stessa gravida del concetto che gli diffonde la mente, e il desio soavemente anelando, e dibattendosi in mille modi, si raffigura il fatto e ritrae al naturale senza parole la contentezza del fortunato maestro.
Piú oltre si estendeva il desio: non erano i baci il termine del suo dissegno, non solo noncii e forieri, ma sono trombe e incentivi d’imprese piú gloriose; se in essi si ferma il corso dell’imprese amorose, l’amante ne resta con modo amarissimo tormentato e ucciso; non altrimenti che se ad uno per longo digiuno famelico gli si mostri vicino il cibo, gli si conceda legermente gustarlo, ma se gli neghi il sufficiente o necessario alimento. Or sopra questo spasimava il maestro, quivi era rivolto ogni suo sforzo, in questo importante negozio raccolto, languiva in ogni altra sua azione. Di questo parlava figuratamente il giorno, si sognava continuamente la notte; parevagli ardua l’impresa, pericoloso il tentativo, di scandalo e vergogna l’essecuzione: e tutto era niente rispetto a’ suoi martiri, a’ suoi tormenti.
Anima inescata da vezzi di ridente e legiadro fanciullo è furia agitata nell’inferno, se non è moderato l’ardore dalla speranza, se non è finalmente refrigerato e fatto sano dalle opere. Attende dunque opportuna l’occasione al disegno, e in loco di correggere e castigar il fanciullo de’ falli, lo regala de doni grati e onorevoli. Gli gradisce, ne sorride e ne gode il fanciullo amoroso e ben trattato; ed egli attesolo al varco l’abbraccia, se lo stringe al seno, e piú agile d’un falcone, e piú presto d’un baleno, per le piú intime parti ignude scorre con l’avida mano.
Si contorce un poco il fanciullo, con atto sdegnosetto, sí che negando aletta; e con un misto né dava vigore all’appetito, condimento al diletto, né ributtava in fatti, mentre il maestro ricercava il morbido solidetto di quei beati pomi celesti con fughe e tratti spediti, nel brilantino s’imparadisava di modo che, con desiderio eccessivo e vano, concepiva eternità felice e piena nel transitorio. Durò il piacevole gioco sin che sturbato da affari importanti fu sforzato desistere; ma restò cosí giocondamente stupido, che solo a questo pensiero intento cessò dai consueti esercizii.
Levò le ferie per molti giorni, e mostrava nel placido sereno del suo sembiante d’aver gustato di quei profondi misteri celesti che non è facile agl’uomini esplicarli. Il che era vero del modo, ma non del essenza del fatto. Già era doviziosissimo di queste grazie, né trovò mai fanciullo cosí restio nelle sue scole che, vinto dalle sue umane e cortesi maniere, non si rendesse vinto nelle sue braccia, non gli concedesse quanto bramava, vincolo di scambievole benevolenza, condimento delle fatiche scolastiche, scienzia fecondissima e sicura d’indubitato profitto.
Ma quanto la bellezza d’Alcibiade s’estolleva in eccesso sopra degl’altri, tanto i diletti seco sarebbono sopra a gl’altri di gran longa maggiori. Tendeva intanto l’agitato maestro al ultimo fine; si risolvé con ardire e ardore invincibile goder il piú desiderato, dolcissimo frutto d’amore.
La trattabilità del putto l’affida, l’ardire suo proprio gli fa saldissimo scudo, e amore lo sforza e induce.
Il giorno seguente dunque l’essorta che accelleri il consueto venire per i servizii di scola piú importanti, per non ricever disturbo dalla scarsezza del tempo. È pronto per compiacerlo il fanciullo, pur, prima che si appresenti, non ritrova riposo il maestro.
Siede a mensa, ma si leva ad ogni boccone, passeggia mangiando, ad ogni batter di piedi corre al balcone, alla porta:
– Chi è colui che passa? Chi parla? Chi è venuto? –, sempre addimanda.
Conta i passi che s’imagina far il putto; gli par troppo tardi, gli par d’esser schernito, onde perde la baldezza del favellare. Tien fissi i lumi a terra e, fatto di color cinericio, quasi dispera del conceputo bene. Stima passata l’ora, seben non era di gran tempo arrivata. Quando ecco all’improviso il fanciullo suscitò il quasi moribondo maestro.
Godono i tuttori di Alcibiade di questa sua pronta diligenza, gli par miracolo non ordinario che un fanciullo di quell’età sia piú sollecito delle scole che del cibo. Commendano e inalzano con encomii al cielo il maestro, fanno argomenti di sovrani i profitti del fanciullo. E se ad alcuno cadeva in pensiero altri zeli, altro desio, la buona fama del precettore gli s’opponeva, né lasciava che si dasse il consenso all’imaginazione.
Gionto, come ho detto, il fanciullo alla casa del maestro, egli, che ansioso l’aspettava sopra la porta, presolo in un tratto per la mano, entrato in casa e regalatolo di soavissimi frutti, lo condusse al solito nella sua camera; e con ardir eccessivo corre ai consueti abbracciamenti, senza mostrarne alcun sdegno il fanciullo.
Non già si ferma quivi il precettore, ma con la man tremante, senza alcun argomento di parole, vien discoprendo le parti ove s’annida amore, ove era drizzato il termine de’ suoi piaceri, ove voleva sacrificare il suo sangue per olocausto alla dolcezza. Mentre stette in un segno da potersi prender indifferente, da potersi connumerar tra vezzi, non recalcitrò ponto il fanciullo; ma quando lo vidde gionto a tale, ch’era chiarissimo il dissegno del maschile schiavone, che già aveva accostato il cannone per battere ed entrare nel forte, alterato in faccia e nella voce, con gl’occhi pregni di lacrime e disdegnoso:
– Io non credea – cosí disse – che pretendeste tant’oltre; che aveste pensieri di cose indegne; che la gravità che mostrate nel aspetto ardisse di profanar la pudicizia de’ fanciulli onorati, commessi alla vostra fede, soggiogati alla vostra disciplina. Il fine da chi ne manda è che apprendiamo dottrine e virtù civili e morali, non che diventiamo bardassi. Se voi ci insegnate questo, chi ne riprenderà? Chi darà esempio agl’altri? Se ad un uomo dell’età vostra e condizione tale sta bene commettere di questi errori, che si deve conceder a’ giovani? A quelli che per età e stato diverso è permesso il venere piú libero? Fate queste cose con gl’altri putti? E se ciò è vero, che dicono i padri loro? A quali pericoli vi esponete? Insomma, non voglio acconsentirvi –.
E ciò detto, col volto alquanto sdegnoso, non già che mostrasse estinta la pietà, né meno impetuoso, si tolse dagl’abbracciamenti del maestro; e senza uscir dalla camera si pose seco in altri famigliari discorsi, talché ravivò la quasi estinta speme del maestro, e tanto gli scoperse di confidenza, che s’arrischiò di parlargli in questo modo:
– Alcibiade, mio dilettissimo figlio, perdonate all’ardire del vostro amantissimo maestro, non afligete chi riverente vi adora; non ha da esser fuggito e aborrito chi con termini sviscerati di confidenza vi accarezza. Gl’amici e gl’inimici si distinguono da questi segni: questi si fuggono e si fuggano, quei s’accolgono e s’abbracciano. Amore, saettando i cori, non discerne né condizione, né età, né sesso. Il vostro aspetto divino, ritratto nel piú interno de’ l’anima mia, ha quivi preso forma vitale, e, fattosi signore del mio afflitto core, qui tiene il suo seggio e impera, sí che l’anima mia esule dal suo albergo si è retirata nel vostro, e non discernendo il suo ius da’ suoi effetti opera amorosamente con voi, nel modo che farebbe seco medesima.
Amore, vibrando lampi di foco da’ vostri bell’occhi, fu primo ch’impresse in me l’imagine vostra, e infiammandola la trasferí cosí viva nel vostro seno. Ma misero è dentro voi, e voi non sentite gl’incendii miei; il freddo del vostro core s’oppone, anzi, riflettendo gl’ardori, gli fa cosí intensi che se nel fonte del vostro bel giardinetto non troverà refrigerio, mi vedrete in breve ridotto in cenere; e sarete pur omicida e parricida de chi con ardor misto d’uomo e di padre, in varii modi, senza misura vi ama e vi brama. Non vi recate a vergogna aver per fedel amante il vostro maestro, che la nobiltà della vostra nascita si ricompensa e adegua in parte dalla fama del mio sapere, dalla prerogativa del mio carico. La divinità del vostro bello, supplicata dal frale del mio desio, per operar alla divina, non ha da esser se non clemente. I belli condescendono alli preghi degl’uomini, e all’umiltà di questi risponde la grazia di quelli. Venere fu goduta da Anchise, Diana da Endimione, l’Aurora da Titone, le ninfe da pastori e da silvani. Eccomi prostrato avanti la vostra maestà: aspetto sentenza innapellabile di vita o di morte –.
Presolo subito per il braccio, umanamente il fanciullo:
– Non vogliate – gli disse – far atti disonorevoli a’ vostri confidenti. Io non m’oppongo a’ vostri desiri perché non conosca i vostri meriti, perché brami il vostro tormento; non sono nato di tigre ircana, non ho il core di pietra, né l’anima senza sensi; ma l’onestà si vergogna, le leggi e la natura lo proibisce. Però temperate i vostri ardori, restringendoli a’ termini piú angusti e piú discreti; prendete quello che lecitamente e con voglia prontissima vi concedo: i baci, gl’abbracciamenti, il tatto indifferente e gl’altri vezzi ve li concederò cortesissimo sempre; ma non pensate ad altri effetti piú oltre –.
Respirò allora il sbigottito maestro, e assicurandosi che non fosser per proceder avanti i sdegni conceputi dal fanciullo, restò grandemente consolato con indubitata speranza che con piú duri assalti, con piú maturo consiglio, averia al fine espugnata la rocca, e nelle guerre d’amore averia trionfato di dolcezza ed eretti trofei di gloria; e per non mancare ai motivi e alle obligazioni presenti, tiratosi in disparte, gli fece un volontario sacrificio di sua mano.
Era solito in simili accidenti dar l’alternativa alla commutazione degl’oggetti, senza venire a questo atto da manuale; ma non parendoli che nella sembianza d’altri si effigiasse apparenza alcuna all’incomparabil bellezza di questo fanciullo, fece pronte le mani a questo officio, trattando con l’imaginativa l’essenza del suo riverito nume.
Era però a questa sola impresa con ogni spirito accinto; ogn’altra cosa aveva posta in non cale; il tutto aveva a nulla, eccetto che di ridurre alle sue ultime voglie il fanciullo. Un giorno dunque s’affidò di parlargli liberamente in questa forma:
– È atto di persona ragionevole, Alcibiade mio dilettissimo, fare o restar di fare ciò che gli piaccia con regole ragionevoli. E se voi sete tale, come chiaramente in ogni vostra azione si vede, ditemi, vi prego, qual cagione vi move ad esser inesorabile e crudo nell’ultimo bramato contento al vostro amantissimo maestro; che sebene in quel passato conflitto accenaste alcune cosette, io non gli posi mente con attenzione, né stimo che procedessero da animo riposato, e che parlaste sul sodo.
Desidero dunque saper da voi la causa vera de cosí dura repulsa, l’occasione fatale del mio morire; e se altro non abbia che il voler vostro, offenderò me stesso per non offender voi; e senza piú molestarvi sarà la vostra bellezza omicida dell’esser mio, sarà la vostra spada il mio dolore, e mi morrò tacendo.
– Non è il mio volere cagione del dolor vostro, dilettissimo precettore – rispose Alcibiade –, troppo sarei disumano, troppo discortese e ingiusto. Altre sono le cagioni patenti e secondo ch’io penso insuperabili; le quali, perché non crediate ch’io finga, voglio ramentarle ad una ad una.
La prima, a quel ch’io sento da uomini peritissimi, che nelle mie case conversano con miei maggiori, è vizio questo nefando abbominato dalla natura, e contro natura lo chiamano.
Lo vietano le nostre leggi; l’aborrisce Pallade nostro nume singulare in Atene; e narrano che i dei prendeva castigo col foco, col solfo e col bitume d’alcune città macchiate di questo fallo, sí che ne restorno estinte e somerse; e per memoria del fatto si credono ancora ivi i luochi sulfurei, con arbori e frutti in apparenza vaghi, entro però siano pieni d’orride faville e di cenere, vestigie della seguita vendetta di Dio. Né che le pene temporali siano meta al castigo, ma che nell’animo separate si essercitino pene incomprensibili eterne.
Non volete ch’aborrisca? Che mi spaventi e fugga? E voi come non temete queste minacce? Come v’arrischiate a sí fatti pericoli? Liberatemi da questi dubbii, o abbandonate l’impresa e il pensiero.
– Deh, vezzoso fanciullo – replicò il precettore – se l’intelletto vostro fosse capace de’ misteri tanto importanti, vi discorrerei su il grave, e vi farei conoscere che queste gioie celesti sotto velame d’orrore si celano da’ giudiziosi, per non accomunarle alla plebe, per non darne dovizie a ciascuno. Le cose preziose sono pregiate per esser rare, le cose sacre sono venerabili per esser recondite: se i fiumi corressero di latte e di miele, sariano meno stimati e piú vili il latte e il miele di quello che sia l’acqua.
Gli vogliono i politici per bocconi di riserva, per salvaticine di pregio, per frutto vitale e unico. Ma per non mancare al dovere vedrò d’aprirvi e abilitarvi la mente al possibile, e procedendo ordinatamente farvi capace e intelligente del tutto. Veniamo pertanto ai particolari da voi proposti.
E primo, che questo sia vizio contro natura, è una allusione ridicola amplificata dagli statisti, né per altro in effetto che essendo nelle donne posto il fiore contro, overo posto all’opposita parte della fica, che natura chiamano, all’uso di quello hanno detto contro natura. Non crediate però che si dica natura la fica perché sia piú naturalmente desiderata del fiore, ma solo perché da quella nasce l’uomo, e il nascere dagl’intendenti si dice natura; or che questo soavissimo diletto non abbia da chiamarsi, né sia, contro natura, il dittarne stesso delle leggi di natura chiaramente lo dimostra.
Sono naturali quelle opere a cui la natura ci inclina, de’ quali pretende il fine e l’effetto. Se adunque è naturai inclinazione veder de’ bei fanciulli, come sete voi, contra natura? E se l’istessa natura non fa cosa oziosa né vana, non comincia per non fornire, avendo poste bellezze nei fanciulli che eccitano i cori ad amarli e riverirgli, ha da lasciar gl’amanti sospesi in aria? Hanno da esser per nulla? Oziosi, inutili? No no, oggetto dilettevole adeguato al desio, che tendendo al suo bene ha per ultimo il compimento.
Non ha l’istessa natura inserto amore tra piú simili? Or non ha maggior somiglianza col maschio fanciullo l’uomo, che il maschio con la donna? L’aver a’ fanciulli dato sembianza di donzella all’aspetto, non ha insinuato che si converta l’uso in un altro uso? Non è ella e le sue cose tutte di maggior valore e piú degne, se a piú usi s’adattino? Perché cosí è stimata la mano, che vien detta regina degli stromenti del nostro corpo, se non perché è in molti usi spedita? Perché s’applicherà ad un sol uso, e sordido, quello che applicato in altre regole fa beati gl’uomini? Perché questa gentilissima parte, a cui per testimonio d’onoranza gli ha conferita la sua propria figura il cielo, servirà solo a cose immonde e servili? No no, che quello fu condimento per farlo piú saporito e grato; e perciò i bocconi stessi di quelle parti degl’altri animali, ridotti ad uso di cibo, sono piú soavi e piú dilettevoli al gusto.
La fica averà dunque l’uso de l’orinare e dar dolce, e questo vago fioretto amoroso gli cederà nelle prerogative, e servirà solo in loco di vilissima e immonda latrina?
Stimate voi la natura cosí improvida? È forse invida al nostro bene? Impoverisce ella nelle delizie nostre? Gli si rubba cosa ch’ella non voglia? Se il tutto ha fatto per noi, il tutto a sua gloria è ragionevole che si goda da noi. Chi non si serve de’ suoi doni la dispreggia; chi non mette in esecuzione le sue invenzioni si disnatura e gli diventa ribelle, onde merita d’esser tolto di vita; ella ne somministra il piacere, perché godendo noi la celebriamo per cara, provvida, ricca e cortesissima madre.
Queste cose discusse dai sapientissimi Spartani, hanno ridotto a leggi quel che la natura, con muto parlare, n’addita; vogliono dunque che ciascuno degl’uomini elegga un fanciullo per suo amoroso, e duri l’amor legato sinché il fanciullo sii in fiore, poi si commuti in un altro piú giovanetto. Sopra questi cardini hanno la stabilità della loro antichissima, inviolata republica; questo è il vero legame di benevolenza e di amicizia. Chi manca a questo istituto è giudicato nemico della sua patria e di se stesso.
– Ora – soggionse Alcibiade – a qual fine son create le donne, se in suo loco con maggior diletto, come voi dite, possono usarci i fanciulli? Che faranno le misere? Forse una farà officio di maschio e l’altra di femina? Overo, inutili al mondo, si leveranno dal numero de’ viventi? Opur, a guisa di tante bestie, serviranno per mere schiave, e in altro conto che d’essercizio donnesco? E i fanciulli nasceranno dai putti? O aspetteremo un altro Prometeo, che ne formi di terra? O nasceremo de denti di draconi, come si favolleggia di Cadmo, o dalle foglie, o da sassi, come narrano di Deucalione e di Pirra?
– Alcibiade mio – rispose il maestro – voi non attingete a pieno. Varii sono gl’appetiti negl’uomini, potentissimo de’ quali e commune a tutti i viventi è il generare e produrre altri della sua specie, per mezo di cui l’eternità non concessa ad alcuno de’ mortali si conseguisce nella natura commune; questo desio pertanto è bastante che non pongano in oblio le donne, che non si facciano serve, che se gli conceda il tributario diletto di Venere.
Ma che? Forse sempre si prendono o devono prender i piaceri amorosi per generare? S’averà d’aver tanti figlioli quanti diletti carnali? Son follie lontane dal vero sentimento e dal giusto. Poiché la donna è fatta gravida, si è conseguito il fine per lei; ed essendo ella divenuta madre dell’uomo si riscote dalla viltà di servaggio e concorre di qualità con esso. Né mancano di quei che piú a loro che a’ fanciulli inclinano. Il che accade per due cagioni: una, che la natura provida, acciò non vadino in abbandono, dando inclinazione verso di loro a molti, le fa partecipi del suo amore, e quando si conseguisse il fine del generare; l’altra è questo vano timore, che, conceputo negl’animi della plebe, con gravidanza d’orrore partorisce effetti di violenza e di tormento. Potriasi aggiongere ancora che la tenacità d’amore riceva stabilità nell’oggetto amato: svanisce con la puerizia il bello e il grazioso de’ putti; dura piú longo tempo nella donna; e se in ciò fossero eguali sarebbono poco meno che escluse in tutto le misere. E invero, che questo solo è manchevole in sí fatti diletti de’ fanciulli; ma è eccitamento al desio, sprone al ricompensare col spesso e col intenso il fugace e il breve. Chi dunque s’affatica immutabile nell’amar un soggetto, per non restarne privo, piú facilmente s’appiglia alle donne.
– Se la natura – disse Alcibiade – non proibisce quest’uso, onde avviene che essendo ella l’istessa e piú pura negl’animali, non gl’inclina, per quanto si vede, a questo?
– Alcibiade mio bene, voi sete aponto fanciullo. Ditemi, di grazia: averete voi apparecchiato un convito d’ugual condizione per un prencipe e per una persona privata? Non certo. Volete dunque che i bruti concorrano in un segno medesimo di piacere con gl’uomini? Se sono inferiori di statura, di senso e di fine, come non saranno ineguali nelle opere? E se in ciò con gl’uomini concorressero, non doverebbono concorrer nel resto, onde averebbono città, ville, case, arti, magistrati, leggi e tribunali? E non sarebbono bruti, ma republica d’animali ragionevoli.
Se adunque la natura industre, diretta ne’ suoi affari da intelligenza non errante, ha sopra tutti prodotto nobilissimo l’uomo, a porzione di lui ha da donargli il resto; o che sarebbe manchevole e discortese. Concede ad essi viver d’un medesimo cibo, e se l’uomo non lo variasse nella continuata abbondanza, resterebbe bisognevole e lasso. A questo appetito del gusto risponde nel suo essere l’incitamento del tatto, e se quello per un sol cibo resterebbe famelico, questo per una sola specie di dolcezza venerea saria povero e mendico. E come vi pare che potesse chiamarsi cortese e magnanimo colui che ad un suo ospite nobile e grande, per longo tempo, classe sempre a mangiare un sol cibo abietto e vile, avendo copia e dovizie del tutto? Bella providenza dell’alma madre, che a’ suoi piú cari figli conceda solo quello che liberamente ha concesso ai conigli e alle mosche.
Ma se vi dicessi anco che per insinuar questo suo esser effetto, e non simplice elezione o capriccio del nostro albitrio, aver l’istessa natura, quasi scherzando, postone incitamento anco nei bruti? Ma non sapreste rispondere. È ben vero però, che per esser le bestie de sensi men delicati degl’uomini, non sono le loro operazioni colmate di diletto dalla conoscenza, perciò né pienamente conoscono questi beni, né cosí ardentemente come gl’uomini li bramano; gli riescono però a misura della loro condizione; non mancano alcuni di essi a se stessi.
Il gallo vuol tributo da’ pellegrini galleti. Il maschio della pernice ha guerra con l’altro dell’istessa specie e di un sesso per conseguir questo fine; il vinto nella pugna si fa tributario e soggetto al vincitore, non usa seco altre armi che l’amorose, altra vendetta che di far dolce. Il cane, emulo tra tutti gl’animali al giudizio dell’uomo, concorre seco in questa azione. Il leone, fatta gravida la leonessa, prende in suo loco i leoncini.
I dolfini, non contenti de l’uso dei lor dolfinetti, con senso piú alto si voltano ad amar i nostri fanciulli. Un di essi invaghito dell’aspetto e della voce armonica di bel giovanetto Arione, piú umano degl’uomini, mentre dall’impietà loro fu precipitato nel mare, dalla clemenza di questo fu riportato al lido. Un altro nei lidi della famosa Partenope, con ossequio fido e amoroso, per spazio di due miglia, longi la riva del mare, conduceva e riduceva un suo amato fanciullo sicuramente dalla sua casa alla scola, e dalla scola alla casa; alla conformità di cui voleri ripose in un tempo il fine della vita; ed ebbero commune il sepolcro e gl’elogii. L’istesso accadé in Lerissa, terra di Rodi, ove altra vita di gioia non era in un delfino che la conversazione corrispondente e cara di bramato fanciullo; serviva il delfino al putto per animato fratello, che, senza periglio del fiuto, senza fatica de’ remi schifando la perfidia dei venti, felicemente ai cenni era assequito agile e regolato il moto a suoi puerili diporti; ed egli, prontissimo ai piaceri della discreta bestia, refrigerava i suoi ardori che avampavano in mezzo all’onde.
Un uomo sopra gl’altri s’innalza per aver piú virtù e manco bisogno; e quello è piú simile a Dio che da se stesso è piú sufficiente di proveder a se stesso. Chi languisce è infelice; chi non sa agiustarsi è inetto. Se dunque nel desiderio de’ putti non trovasse l’uomo rimedio, non sapesse estinguer l’ardore, che libertà, che ingegno, che industria saria la sua? Infelicissimo e vile sopra tutte le bestie.
Sources
- La première version de cette page a été partiellement récupérée de Wikisource en italien [1], le 30-10-2009 (crédits : voir historique).