L’Alcibiade fanciullo a scola (Texte intégral – 3)

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(Texte original d’Antonio Rocco, 1652.)


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– E senza l’uso delle donne e de’ fanciulli – disse Alcibiade – non vi è rimedio d’estinguere gl’incentivi d’amore da se stesso, con le sue proprie mani, e senza dispendio e fatica, senza farsi soggetto ad alcuno? A questo dunque giudicherei piú sicuro appoggiarsi, e non si morirebbe d’inopia, ma ad ogni picciolo male di lussuria saria prontissimo con sicurezza il rimedio.

– Alcibiade ben mio – rispose il maestro – il cavarsi gl’umori con le proprie mani e servirsi d’una imagine in cambio di cosa vivente è mendicità infelicissima. Negl’impeti furiosi d’amore si brama estinguer la sete nel fonte, qual non è né può esser dentro nel ritondo se non con l’imaginativa, la quale piú accresce l’ardore e finalmente illanguidisce, anzi uccide, se non si gionge all’oggetto reale, se non s’attuffa e immerge nel bramato liquore. Né altra cosa vi proibirei giamai, se vi degnarete de’ miei ricordi, in questo proposito, che una tal vigliaccheria: il cazzo deve esser moderato, perché l’eccesso, privandoci della piú pura e piú spiritosa sostanza, ci estenua, ci disecca e consuma. E ben spesso in loco di seme si manda fuori sangue vivo, si distilla il cervello, si discipano i spiriti: onde si cangia figura e colore, e s’accellera velocissimamente la morte, perché la natura, intenta piú alla conservazione della specie che del individuo, mette ogni sforzo a preparar materia per la generazione, sí che dato fuori il seme ne apparecchia subito dell’altro, e ne toglie la materia dal sangue piú puro, onde ne rende vuote le vene e le parti piú principali e piú vitali.

Chi dunque s’usa far dolce con le sue mani per la commodità, l’uso si converte in natura, e per gl’incentivi continui che ci molestano si espone ed è quasi necessitato menarsi sempre il cazzo: onde diventa l’uomo micidiale di se stesso. Le altre occasioni, per vicinissime che siano, non giongono di gran lunga alla detta.

È però opinione d’alcuno che il primo grado di danno si riceva dalle donne, il secondo dai putti, il terzo dalle proprie mani; perché quelle, dicono, troppo ci attraono col lor calore, e il desiderio nativo vi scuote col moto della persona; e i fanciulli ancor essi, con la vaghezza della presenza e col moto, non però cosí grande né agitante, vi stancano tuttavia; sí che temperato e soave, senza alcun atto di violenza, le nostre mani agiatamente vi servono. E cosí difendono questa parte, oltre i civanci che voi accennaste.

Io però prepongo per le dette cagioni il danno di questo, senza comparazione, ma con eccesso notabile agl’altri. Anzi, il compiacimento dell’oggetto amato presente addolcisce talmente i spiriti, che senza fatica o stanchezza vi apporta refrigerio e contento; e ricompensa il moto e l’agitazione; dove all’opposito l’altro, privandoci del piú bello e del vero, vi lascia stanco e lasso: non doverebbono pertanto cambiarsi i putti con lui. Questi, usati modestamente, come io dissi, vi apportano allegrezza e salute: onde uno de’ nostri famosi medici lasciò scritto che usus et amplexus pueri bene temperatus è salutaris medicina.

– Perché usate questa parola di temperato, o caro maestro? –, disse Alcibiade.

– Perché l’eccesso, come vi dissi, offende – rispose il maestro – non per difetto dell’oggetto goduto, ma per l’uso. Cosí il manchevole è cagione d’infermità e di doglie; giaché il seme escrementoso e umido, se a tempo non sia sminuito, diffondendosi per il corpo è cagione di mali innumerabili e incurabili. Per questo dunque, doppo ch’ho fatto maturo il senno, a questi angioletti mi sono rivolto e sacrato. Questi sotto colore di nipoti, di scolari, gl’avete sempre al fianco, e apportate decoro ad essi, acquistate benevolenza da suoi, dolcezza a voi stesso, per mezzo loro; l’interesse dunque civile e politico, quando ogn’altra ragione mancasse, a cosí giocondo diletto ci persuadono.

– Non potrebbe l’uomo con l’uomo, senza distinzione d’età puerile – disse Alcibiade – prender questi piaceri? Se in ciascuno di essi si ritrova quanto è nei fanciulli, e d’avantaggio?

– L’età mutano specie e natura nei trastulli amorosi – disse il maestro – si mangia delicato il capretto, che fatto becco è fetidissimo; ma quelli che a questi caproni attendono sono ribelli d’amore, sono bestie di ferino e corrotto senso. L’amor maschio è fanciullo: è ben vero che troppo bambino è insipidetto, pur sono in effetto fanciulli misti di latte e ambrosia piú vicini al soave e da schiffarsi meno degl’altri.

– Ma da qual tempo a quale – dimandogli Alcibiade – poneste il segno dell’età da godersi i fanciulli, giudicioso maestro?

– Dal nono sino al dieciottesimo anno – il maestro rispose – seben non vi è legge determinata, perché alcuni pargoleggiano per piú tempo, altri presto sfioriscono, sí come alcuni bambolini ripieni e tondetti vi incitano sin dalla culla.

– E averanno capacità – disse Alcibiade – in sí tenera età, di sodisfar a vostri desiderii?

– Signor sí, signor no – rispose – ve ne sono alcuni capaci, parte per la materia arrendevole di quei luochi, parte per industria discreta dell’amante, si riducono apieno contenti. Deve però l’amante esser discreto e gentile: onde certi asinazzi rozzi dovrebbero in un tempo esser esclusi dal numero dei viventi e dalla aggregazione di questi gloriosi trionfanti. Questi sono insinuati per il porco, che invece di goder del bel fanciullo Adone con impeto bestiale l’uccise. Arte dunque ci vuole, e giudizio: ond’io non posso cessar di lodar alcuni uomini savii, quali non si curano né vogliono far di amanti martiri i poveri fanciulli, con impallargli all’usanza de’ barbari, con il sfondargli sino all’elce, ritraendo sangue e pianto da quell’atto gentilissimo, da cui non s’attende altro che gioia e gaudio; anzi, compartendo il diletto a piú sensi, non apportano alcun male al fanciullo, raddoppiano le loro felicità e restano di nuovo e spesso bramati e invitati da’ fanciulli stessi a simili trastuli vagi e amorosi.

– In che modo signor maestro si fa questo? –, addimandò Alcibiade.

– Vogliono – rispose il maestro – che il fanciullo si accomodi in modo tale che, facendo con rilevata positura pomposa mostra de’ suoi bei pomi, vedono gl’amanti sempre il vago e il riguardevole del giardino, e il scherzo insieme del suo sollazzante merlotto, qual né dentro né fuori, col lasciar desiderio al gusto, renderà piú dilettevole l’opra, e pascendosi intanto l’avida vista, ch’è primiera in tutti i godimenti amorosi, ci rende un misto de sí soave tempra che le Muse e Apollo non saprebbono condirne un simile.

E se il cardellino dell’amato fanciullo avesse dalle mani dell’amante, o dalle proprie del putto, ricreazione a tempo, non fora altro che bene. E da questa ingegnosa maniera di fruizione si schiffano senza fallo quei sordidi effetti stomachevoli che voi diceste di sopra; e quel che stimo importantissimo si possono per questa via goder tutti i vaghi fanciulli, anco de latte: e s’averà con il dovizioso il facile, l’abbondante. Né doverebbe questo prezioso cibo esser trangogiato come da lupi, ma gentilmente succhiato e lambito.

– Pur i padri non vogliono – soggiunse Alcibiade – che i lor figlioli siano ridotti a questo uso da’ precettori, come anco li precettori ne ricevono poco buona fama: segno che sia stimata azione illecita e indegna.

– Hanno ragione i padri – rispose il maestro – perché con la severità, che nell’ammaestrare il fanciullo si ricerca s’accompagnano difficilmente le carezze e i vezzi amorosi, oltre che da molti sono in uso e in stima gl’ordeni e le leggi contro questo piacere.

Ma nei maestri giudiziosi si trova maestrevolmente temprato il severo con il dolce; e invero che l’uno senza l’altro è inutile e dannoso. La severità pura fa barbaro il maestro, schiavo il fanciullo; il simplice dolce e l’indulgenza rende il putto insolente e discolo, il precettore vile e spregiato: ma uniti insieme fanno miracoli. L’amore non rompe la fede, il godimento volontario non è perfidia; il fanciullo goduto da onorato maestro non perde riputazione, non acquista vergogna, non è fraudato del giusto, anzi, in un tempo diventato amante della scola e del maestro.

Quelli che non si servono di sí fatte occasioni sono nemici a loro stessi, né è posibile che possino longo tempo durare in questi essercizii.

La natura de’ fanciulli è indomita, fiera, mancante del ragionevole, di modo che se queste amarezze non si temprano con i dolci affetti d’amore diventano velenose e mortifere. Io quando vedo il loro procedere da fiasco, i chiassi, l’insolenze, i strepiti, che leverebbono dai cardini della pazienza un colosso di marmo, mi rappacifico con la contemplazione di quei loro soavissimi pomi di paradiso; e in una mistura tra l’eccesso d’amore e il giusto dell’ira provo tempra gradevole e cara.

E seben questi amori non possono applicarsi a tutti i scolari, essendone molti inabili per l’età, per la fama e per la ragione di stato, per non esser stimato parziale e ingiusto, per non preiudicare agl’utili, agl’interessi, e i segni di benevolenza si distribuiscono a proporzione, per tutti; anzi, ne’ fatti publici esterni, il piú diletto, il piú caro, non ha miglior condizione degl’altri: le grazie si dispensano secretamente, nel modo che si consumano gl’atti amorosi. Perciò tutti indifferentemente ci amano, ci riveriscono, e ciascuno stima d’esser amato da noi; niuno si ramarica, o si lagna, e il maestro, fatto pazientissimo, sodisfa a se medesimo e agl’altri.

Chi fu potente di tener Giove sotto la forma d’un bue, se non amore? Chi fece cangiar animo e spoglie ad Ercole, se non questo? Chi dunque con queste indomite fraschette resterebbe saldo al continuo tormento delle lor pazze puttane, se non fosse legato d’amore? Chi dunque secretamente non li ama è un asenaccio da basto, un spietato aguzino di quei sfortunati fanciulli. È ragionevole ancora che chi coltiva il terreno goda dei frutti che egli produce; altri averan le cantine piene di vino per vivere sitibondo? Ne saranno rapiti da ogni banda i fanciulli nostri, e noi saremo inabili, e questi degni di goderli? Sarà concesso il bel fiore, sí delicato frutto, ai ladroni? A chi li deflora e li guasta? O n’averà l’uso moderato e discreto il giardiniero fedele?

– Voi per i vostri fini egregiamente discorrete – disse il fanciullo – ma prendete anco la parte per noi, e ditemi fedelmente che diletto abbiamo noi dal condescendere ai vostri piaceri; non altro, mi credo, che sottoponendoci vilmente alle vostre voglie sopportar l’impeto delle vostre spinte, e andar al sacrificio, al patibulo, alle sbrogiature e sbregature, al dividerne quasi in pezzi.

Se ha da esser ben per voi con nostro danno derrogate al giusto e alle stesse leggi della natura di non far male ad altri, massime agl’innocenti e ai novelli; ché li altri, che per esperienza sanno il fatto suo, direi che sia suo danno, che non deve lamentarsi chi ha quello che vuole o non lo niega, poiché volenti non fit iniuria.

– A questo importantissimo ponto del diletto vorrei, cor mio, rispondervi con li fatti – disse il maestro – che alla verità delle parole prevagliono, come fa il corpo sodo e reale all’ombra. Né credo, perdonatimi figlio se con troppa libertà vi ragiono, sete dunque sí nudo di questa sprimental conoscenza? Alla vostra suprema grazia non saranno a quest’ora mancati amanti della vostra gentilezza; non si pretendono, né possono nascer effetti di discortesia dal vostro pregiato fiore. Le api sollecite e industri averanno rapito il miele, né la vostra leggiadria incomparabile sarà sin a quest’ora stata oziosa e inutile. I visetti de’ bambini graziosi, sin nelle fasce e nelle braccia della baila, ricevono dalli cupidi amanti baci e scherzi lascivi, e nell’istabile delle tenere piante provano il tatto sodo nei lor pometti, né sono sicuri dall’aria stessa, che ancor ella per baciarli e fruirli si caccia loro per tutto. Or che sarà d’un putto della vostra età fiorita?

– Non nego – rispose Alcibiade – che da numeroso stuolo d’amanti non sia stato sempre vagheggiato e seguito; ma la sicura custodia de’ miei maggiori hanno impedito il lor gusto. Ho però procurato provar scambievoli questi diletti con fanciulli coetanei compagni, ma non li ho stimati molto, né li ho uguagliati a quei piaceri che forse si ricevono con gl’uomini; anzi, me li ho rappresentati tanto diversi quanto è un frutto acerbo da un maturo. Però non sono lontano dal desiderio di questa prova, e attentamente vi ascolto.

– Proviam adunque, ben mio dolcissimo – l’incazzito maestro disse – che sopra la verità dei fatti saranno piú veraci i discorsi e le glose.

– Non voglio altrimenti – rispose il putto – che cessata l’occasione di persuadere sarete piú languido e forse anco renitente nel dire. Seguite pertanto, e non temete del resto.

– Cosí farò – rispose, e ripigliò il suo filo dicendo – il diletto ch’hanno i fanciulli a sottoporsi all’amante è grande, non però uguale in tutti. La cagione ch’egli sia grande è questa.

I nostri sensi sono a questo fine ordinati dalla natura, perché dal loro proprio oggetto, ben ordinato e disposto, ricevono dilettazione e la compartiscono all’anima, che in ciò è stata dall’istessa natura prodotta. Perciò di bella pittura e piú belle animate sembianze umane gode con maraviglia la vista, dalla musica l’udito, di grati odori l’olfato, di cibi delicatissimi il gusto; ora il tatto, potentissimo sopra tutti gl’altri sensi, in cui consiste l’essere e il vivere degl’animali, in cui si rinchiudono con piú perfetta mistura le qualità degl’elementi, ha il sommo del suo piacere dal toccare le parti piú gentili, piú temprate e piú moli. Perciò nei congressi di Venere si corre subito con la bocca alle labbra, ove nella morbidezza di dolce latte porporeggia vezosissima la rosa; le mani scaltre, audaci, corrono impetuosamente alle mamelle, ai pomi, perché ivi, senza l’aspro dell’ossa, ha grata corrispondenza il desio. Ma piú oltre deve correre il nostro discorso, come piú dentro si trova l’ogetto piú verace e piú amato di questo senso. Dovete dunque sapere che la virtù primiera del tatto risiede, come dicono i piú intendenti filosofi, nelle parti nervose e negl’istessi nervi: e de qui avviene che quelle parti offese sentono piú dolore, e vezzeggiate ricevono maggior piacere. Perciò il colmo de’ piaceri è posto ne’ genitali, essendo quasi totalmente composti di gentilissimi nervetti. Or questo tatto ha il sopremo del contento quando col mezo di convenevoli tempre, quasi col pletro, sia al nativo suo dolce eccitato: e, per dirlo in breve, non riesce perfetto apieno se non per il seme genitale, perché questo è sopra ogn’altra parte del nostro corpo temperato, e con l’esser liquido, è facile con gli stranienti Acanti trasmettersi e penetrare i piú intimi luochi della vita e, per conseguenza, recar diletti divini.

Nei fanciulli, per difetto dell’età, non vi è questo seme onde non inclinano molto a’ piaceri attivi di Venere. Ma essendo in essi un fomite e una pullulazione di questo principio, hanno invece di seme certi spiritelli gentili lussuriosi, che gli provocano il diletto; e per esser questi spiriti piú agili e piú pronti al moto, con ogni picciola occasione i lor becchetti, come tanti gaietti, si alzano su e si stizzano, e restando nell’uso del far ad altri delusi, come mancano di questo desiderio, con eccesso riflettono la virtù nelle parti del loro giardino, e bramano perciò d’esser accarezzati, toccati e pienamente goduti. E perciò, quasi universalmente, con facilità si sottomettono. E se alcuno si mostra restio, non è questo perché la sua natura non l’inclini, ma per l’abito di timore imbevutogli da chi per leggi o per altro li persuade che sia vergogna e peccato. I loro bocchetti, irrigati dalla temperie dolcissima del seme, sentono in quell’atto gioia incomparabile di dolcezza, e piú se s’aggiongono altre ricreazioni nelle parti piú moli e veneree. Questa è la cagione del loro universal diletto, qual anco in gran parte dipende dalla disciplina e destrezza dell’agente; perché si ritrovano certi asinacci che invece d’apportar giubilo e contento all’amato fanciullo, a guisa di tanti macellari, sottopongono li poveri fanciulli alle sbregature: e il trofeo di queste loro empie boccarie sono lacrime, sangue e fratture di quei inocenti e simplici agneleti.

– Perché – addimandò Alcibiade – non ricevono i putti piacere anco da questi, se è l’istessa operazione e l’istesso uso?

– Alcibiade ben mio – rispose il maestro – la perfezione dell’universo consiste nel modo: è grato il bacio, ma che non morda; è soave grattar la scabia, ma non stracciar le carni; sino il far troppo elemosine, digiuni, orazioni, non è bene, se non è misurato.

Questi tali non sono amanti, ma lupi; non fruitori de’ beni sopremi, ma micidiali e nemici della natura e del mondo. Contro costoro, per scoprirvi un altro mistero, son fatte da alcune nazioni leggi di foco, non contro a’ discreti amanti; vogliono pertanto queste leggi che non si strapazzi il mestiero, ma che si faccia bene; che non vi sia occasione di sdegno, ma di benevolenza; e insomma, non se ne proibisce l’uso, ma il mancamento, come dalle altre cose di preggio: questo fu il fine di questi accorti politici. Che poi alcuni fanciulli sentano piú diletto degl’altri, ciò avviene dall’esser congionte con piú vicini nervetti le parti del giardinetto con quelle del cardellino, perché i spiriti con piú facilità si communicano: e il pizzicore immaturo dell’uccelletto s’induce quasi del tutto nel giardinetto, talché alcuni sentono soavità sí grande nel farsi chiavar, che impazziscono di desiderio, pregano e quasi violentano chi li contenti. Sono questi fanciulli vivacissimi sopra gl’altri, perché la copia de quei spiriti chiavarelli dà agilità anco al moto e ardire all’operare: onde li dissegni che si fanno di tali sogliono ordinariamente sentir il fine. Hanno anco il lor moto piegevole dai lati, quasi a vicenda tirati da contrapesi, effetto parimenti di questi scorrenti spiriti; è ben vero però che anche alcuni fanciulli quieti e savii, seben non sentono questo eccesso di tinticare, pure con quel poco ch’è commune a ciascuno, son facilissimi a lasciarsi levar in braccio; ed è piú facile il farglielo che il dirglielo; e ardisco di dire indubitatamente che niuno fanciullo, data opportuna e commoda occasione, sa esser restio a questi piaceri; anzi, alcuni ne sono tanto avidi e ingordi, che senza intermissione supplicano al officio del cazzo, strisciano e aprono, come le capre; e io credo che questi tali abbino cominciato a gustar questo dolce pria che nascessero nell’utero dico delle loro madri.

– Desidero sapere come può esser questo –, ripigliò Alcibiade.

– La natura della donna – rispose il maestro – come sanno benissimo gl’anatomisti, è a guisa di membro virile riversato, e nel concavo di essa si concepiscono i bambini.

Ora in alcune donne piú lussuriose questo interno cotale si rivoglie in varie maniere, e nella positura del bambino, che è tendente al sferico, si volta la ponta verso il alletto, si ferma, si ficca in parte in quel loco, e comincia il piacere con il tinticare, ed essendo dal loro primo principio usato a questo, gli par fierezza e cordoglio quando non hanno l’istesso o un simile grattante.

L’istesso intraviene alle donne, perciò molte di esse smaniano di questo gusto, e abbandonando la fica fanno officio solamente de’ putti: di questi indifferentemente, cioè tanto de’ putti quanto de’ donne, si può con verità dire che prima siano stati fottuti che nati.

Si può aggiongere ancora che vi sia piú pieno il diletto da cui si leva il fatticoso e il molesto, benché tallora la moderata fatica l’aumenti; tocca dunque il stancarsi, il sudare, il gemere all’amante; se ne sta steso, riposato, il fanciullo: questo pertanto piú gode.

Questi sono parte dei diletti che riceve il fanciullo in queste azioni; ma se è diletto il far bene, se è piacer l’esser ingegnoso e saputo, vi sono altri diletti oltre gl’accennati.

– Dittegli, di grazia, ma distintamente –, disse Alcibiade.

– Gli dirò – disse il maestro – grande, infinito, incomparabile è Iddio, perché dà l’esser, il conservare; e tanto di buono e di bello può bramarsi nel mondo liberamente senza impoverire.

Chi dunque fa secondo il suo potere beneficii piú grati e piú soavi, beneficii che diano vita ai languenti, che traslatino dal inferno nel paradiso l’anime tormentate, non s’assomiglia questo a proporzione a Dio? E chi meglio fa questo, che quello che consola l’amante? Che chi li porge quel uso per cui egli lascia di riposare e di vivere? E perché credete che da’ nostri antichissimi padri siano collocati nel numero de’ dei della prima classe, anzi, stimati figlioli reali del sommo Giove, dico Cupido e Venere? Solo perché erano a’ suoi tempi facili e cortesissimi a far con questi diletti beati gl’uomini. Quanti, per esser stati tali, sono collocati tra dei: hanno sí onorata insegna nel cielo le imagini eterne, fulgentissime delle stelle Castore e Polluce, Ganimede, Arianna e altri senza parangone e senza numero. Leggete pur l’istorie de’ nostri Greci, e le vedrete tutte ripiene di queste verità.

– Voi dite il vero – disse Alcibiade – che anco io ho letto e udite queste cose. Ma perché Cupido e Venere sono piú grandi e piú nominati degl’altri nominati da voi?

– Perché furono piú belli e piú cortesi degl’altri –, rispose il maestro.

– Ditemi, caro signor maestro – replicò Alcibiade – come per questa via si diventi ingegnoso e saputo, come or ora diceste.

– In questo modo che vi dirò – rispose il maestro – il celebro umano, che risiede tra i sensi interni de l’anima, ha origine dai sensi esterni, è eccessivamente umido e freddo, di modo che se tallora non viene ridotto a temperie, resta ottuso, inabile alle cognizioni sensibili e ripieno d’immondi escrementi: perciò gl’odori soavi, che sono calidi e temperati, li conferiscono grandemente; ma a questo effetto è miracoloso il seme di persona ingegnosa e dotta, perché questo, trasmesso per le parti basse del giardinetto, per virtù del suo nativo calore, esalla verso il celebro spiriti ben disposti, che lo dispongono attivamente a ricever qualità quasi simili a quelle del operante. Né è permesso a fanciullo alcuno diventar pari al suo maestro, se non per questa via; non negherò però che da ogni seme non si riceva qualche utile nel cervello, essendo ognuno de chi si sia giustamente tepido e temperato, ma piú ove ha piú del qualificato e del nobile –.

Rise soavemente a questi scherzi il fanciullo amoroso, e accompagnando gl’atti alla sua gentilezza immensa, s’accinse a far beato l’anelante maestro.

– Ecco – disse – amantissimo maestro, che il desire del vero sapere, posposta ogn’altra cosa, ai vostri piaceri mi piega. Eccomi apparecchiato a contentarvi di quanto bramate –.

E nell’istesso tempo, alzando la veste, s’acconciava all’effetto modestamente e, agiustato dalla diligenza del maestro, in un tratto mostrando svelate quelle pompe gloriose d’amore, fece vergogna alle stelle, al cielo, e l’istesso sole, vinto da quei splendori piú che celesti, s’abbagliò di vista.

Chi potria mai narrare in parte le maraviglie incredibili che in quel compendio dell’universo si ammiravano? Le rotonde sfere, emule alle celesti, erano vivaci, asperse d’animati ligustri e di narcisi; il tatto della mano vi faceva stupire, col purpureo di cocenti rubini e col misto di latte e di cinabrio, li prati e giardini fioriti, gl’archi celesti, i raggi, le stelle stesse; il moto, che regolato e grave per soave diporto vi additava il glorioso fanciullo, averebbe incazzite le statue di bronzo e di marmo. O come maestoso, o quanto bello e regale aveva, a guisa di nascente rosa, le sue crespette riserrate; e con il misto di varii colori gareggiava tra gl’altri le nevi animate e l’ostro.

Cadé, quasi languente di gioia, all’apparir di quelle superbe maraviglie, il fortunato maestro. Ma preso ardire, con le ginocchia chine, li diede il primo tributo con la lingua, che, fatta stupida alla favella, presa dalla sua propria bocca, avida e pellegrina cercava albergo in quel loco. Qui furiosa s’immerse, e con maggior ingordigia che non sugge il famelico bambino il latte delle mamelle, lambiva, sugeva, beveva, ingoiava quei soavissimi liquori d’ambrosia. Accinto a miglior opra, ridondante di gaudio immenso, proruppe in queste parole:

– Se i savii chiamano paradiso quel loco ove si fanno beate l’anime in cielo, paradiso sarai tu della terra, ove si beano gl’uomini viventi in essa; e se l’uomo è piú perfetto che l’anima sola, tanto sarai tu piú glorioso di lui, quanto in quello è sola felice l’anima, e per te si fa anco beato il corpo.

Se questa è la sede della felicità, ove sta il vero dio d’amore che fa in effetto felici, qui dunque devoto mi consacro, e se altri paradisi si trovano, li commuto volentieri per questo.

Ceda, ceda pur alle tue glorie il cielo. Egli con i suoi tuoni atterra, tu soavemente aletti e invitti. I suoi fulmini inceneriscono, i tuoi fanno fecondi a’ viventi. Il suo moto è meditato uniforme, e perciò produttivo sempre degl’istessi effetti languidi e infruttuosi; il tuo, con accessi e recessi, or presto or tardo, influisce varii effetti, ma fecondi tutti, colmi di gioia e diletto. A quella assiste una intelligenza oziosa; a questa invigilano piú Arghi, informando vicendevolmente l’orbe, non si stancano mai, anzi, prendono da lui continua forza, sempre piú s’invigoriscono. Quello si stima incorruttibile ed eterno; questo per fama e gloria di tanti trofei acquistati, voti dedicati e appesi, preghiere efficacissime fattegli, lacrime copiose sparse, sospiri cocenti gettati, si rende glorioso e perpetuo alla memoria de’ viventi.

Questo dunque sarà il centro de’ miei pensieri; da lui riceveranno il moto; sarà regola infallibile delle mie azioni, scopo e meta d’ogni mio bene e felicità. E cosí, come a mio nume e deità, ti consacrerò il mio core –.

E cosí dicendo, l’innamorato maestro, con dolcissime spinte, continuava a godere il vago fanciullo, ridotto a termine che non avendo il cazzo del suo maestro nel culo non sapeva che cosa fusse dolcezze; nemeno credeva per altra via poter divenir perfetto al pari del suo precettore.

Fortunato maestro, che facendoti servo di tanta bellezza fosti anco padrone di goderla, in conformità del tuo desiderio.

Ma come poi continuassero i loro godimenti e gl’amorosi amplessi, nella seconda parte piú lascivamente intenderete.


IL FINE





DI M.V.


   L’arte che buggeronica si chiama
fu da’ Greci piú dotti ritrovato
e da’ maggiori, e poi da tutti usato,
per sfogar de’ lor cazzi la gran fiama.
   Da quella gente ancor, a drama a drama,
fu ridotta da noi a miglior stato,
onde ciascuno vuol il putto a lato,
e lasciano in disparte ogn’altra marna.
   Fottete in cul, o voi, fuggi la potta,
bestiazze da basto, arcipoltroni,
poi cazzevi romitti in una grotta;
   ma se chiavate in potta, ser mastroni,
vi marcirete il cazzo a l’otta a l’otta,
e sarete chiamati arcicoglioni.





DEL MEDESIMO


   Sentite o voi, poeti peccoroni,
che non avé cervel né fantasia,
mi saperesti dir se meglio sia
fotter sotto vestura o ne’ calzoni?
   So ben che sete tutti buggeroni,
che vi conosco a la fisonomia;
dite per vostra fé qual meglio sia,
se non, dirò che sete buffaloni.
   Non rispondete, no? O gagliofazzi,
alocchi, mamalucchi e asinoni,
mascalzoni, cú cú, teste de cazzi.
   Ben io lo so, ch’alcun de’ miei coglioni
di potta mai provaron li suoi guazzi,
ma sol del culiseo li fei patroni.





DEL MEDESIMO


   Potta, che non vuò dir di qualche male,
mi monta pur quando mi viene in mente
che un uomo dotto con la bassa gente
deve mettere in potta il suo cotale.
   Se ’l bue, se ’l can, il cervo, ogn’animale,
fotte in la potta tutti allegramente,
se al fotter il saper non giova niente,
adio studio, ti dò l’ultimum vale.
   Devon fotter adunque i piú saputi
(sentite in cortesia, non sta già bene)
dove che fotton gl’animali bruti?
   Sia benedetta pur la dotta Atene,
dove Platon e Socrate coi putti
con gran piacer scarcavano le rene.





DEL MEDESIMO


   O voi che le scienze studiate,
scrivendo ognor mille coglionerie,
mettete in carta sempre furberie
e in ciò sempre il cervel vi lambicate,
   dite che buggeron son prete e frate,
sempre sognate in tal ribalderie:
io, che conosco vostre ladrerie,
so che da l’altrui scritti mendicate;
   e se volete che vi dica il vero,
vi stimo babuassi da berlina,
e del vostro ciarlar non vi dò un pero.
   Ma se volé imparar buona dottrina
(che mai dissi bugia, ma solo il vero)
legge questo libretto una mattina.




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Sources

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