L’Alcibiade fanciullo a scola (Texte intégral – 2)

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(Texte original d’Antonio Rocco, 1652.)


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– Lasci l’impresa e il pensiero di amargli – rispose Alcibiade – e si toglierà l’occasione di penare.

– L’amore, Alcibiade mio, non è in nostro potere, e molto meno il desistere d’amare l’oggetto amabile, che all’occhio e indi alla mente si rappresenta, attrae con incomparabil violenza l’anima de chi lo mira. Egli descrive i beni che indi s’acquistano, l’accende finalmente di voglia e l’innamora, che se non beve al fonte del conceputo diletto, se ivi non s’attuffa e s’immerge, resterà arso e ridotto in cenere. E perché tragga il desiato nettare di dolcezza a suo gusto, poco importa se il vaso onde s’attinge sia quadrato o ritondo; talché, chi distinguer volesse non potrebbe; chi può non dovrebbe; chi vuole non può; e chi vuole e può non ha sensi.

Che le leggi d’alcuni popoli, come voi dite degl’Ateniesi, lo vietano, non è che in se stesso non sia buono. Aggiustano costoro le leggi a’ suoi interessi; non sottomettono gl’interessi al giusto; sono a beneplacito delle donne, a compiacenza di esse, perché non restino neglette ed estinte. E de qui prendono forma di convenevole, che è bastante protesto per formar dogmi e statuti: l’apparenza di giovar ad altri, massime a chi è inabile e soggetto. Hanno cosí fatti ordeni riguardi piutosto agl’interessi di stato e di politica, che a dittami della ragione, all’inclinazione della natura; anzi, sopra questa maledetta ragione di stato gran parte delle umane leggi e le religiose stesse si fondano, talché alcune di loro esecrabili sono dal sciocco volgo stimate venerabili e sacrosante.

I Vangii, abitatori dell’equinozio, hanno per legge indubitata e infallibile che Dio creator e conservator universale del mondo abiti solo seco; il resto degl’uomini sia abbandonato da lui; siano retti dalla fortuna e dal caso; anzi, che non piú possa né voglia Dio, di quanto possa e voglia il suo principe, quall’è stimato da loro il secondo Dio; fuora de’ suoi confini non è né verità né nume, e tanto oltre presumano che, reputando maledetti tutti gl’altri d’altra setta, non solo essi sono eletti da Dio, ma quasi patroni di lui: onde a lor voglia stimano che seco conversi, sino al lor tatto e al lor gusto si sottoponga, e con racconti ridicolosi e puerili, lo fanno or amante, or nemico, or comico, or buffone e or leggiadro.

I Sciti, che si accarezzino tutti i nemici della loro fede; che sia divina l’occisione; che l’anime separate abbino bocca e cazzo, che mangino e fottano come fanno le bestie.

I Tartari, che si tenga per lecito il chiavare la madre, le sorelle, le figlie, i fratelli e anco con le bestie.

L’uso però tra maschi è concesso dalle leggi de’ piú civili nazioni, da Persi, da Medi, da Indi e da piú degni de’ nostri Greci.

I Caldei hanno un Dio da pocco, superstizioso, volubile, incostante, crudele e di poco giudizio; epur a queste leggi prepongono, nell’osservarle e crederle, l’onore, la robba e la vita. Vi paiono elle giuste?

– Anzi, irragionevoli e pazze –, rispose il fanciullo Alcibiade.

– Nondimeno – ripigliò il maestro – canonizate dall’uso, stabilite dal timore e autenticate per vere non meno dalla simplicità de’ creduli che dalla severità de chi regge, sono per giustissime mantenute.

Ma veniamo ormai al nostro proposito. A quali de’ nostri dei prestiamo piena fede? A Giove, re degli dei e degl’uomini. Non ha egli rapito Ganimede? Or se gli fatti degli dei sono per esempio e imitazione degl’uomini, come è proibito a noi ciò che essi insegnano con l’esecuzione? Fu a Giove lecito usar la forza, era dio, il suo divin volere è misura di giustizia nell’operare a noi, che non abbiamo imperio sovrano; siano in loco di forza i preghi, fia che i voleri de’ sordi pieghino al consentimento uniforme. Apollo non godé di Ciparisso e di Giacinto? Ercole de Ilus? E Cupido non è per altro maschio e fanciullo che per mostrare l’amor principale esser di fanciullo, e per l’amor feminile è Venere, che non ha armi né foco, se non le prende ad imprestido da suo figlio.

I putti dunque hanno il primo scettro in amore, le donne auttorità delegata e dependente; tanto dunque è lontano dal vero che questo sovrano diletto sia aborrito dagli dei, gli s’apparecchino castighi atroci, quanto è longi dal giusto che fosse gastigato un servo per essequir gl’ordeni e gl’essempi del suo signore; e a voi sarà credibile aponto come s’udiate dire che il sole di notte si rinchiuda in un bossolo della luna.

Coloro a’ quali, per loro privati interessi, è parso vietare questo diletto, stimando che li giudiziosi s’opponessero al vero, che le sue leggi fossero a ragione neglette, il caduco delle lor posizioni hanno cercato folcire nel immutabile dell’apparente auttorità di Dio. Ove è manco di vero, ivi s’apportano piú giuramenti, e per far credibile il falso si meschiano le cose profane con le sacre. Si vince la mente pura con l’attrocità delle pene e de’ tormenti. La riverenza verso Dio è inserta naturalmente ne’ petti di ciascuno, perché è egli cagione e anima eterna, essenziale del tutto, dando l’esser e la conservazione con intimo ilapso a’ viventi gli lascia impressi vestigi di conoscenza riverente: perciò o piú o manco, sempre o frequente, è riverito e temuto.

Ora sopra questa base appoggiano i savi legislatori le loro leggi, e divulgando esser volere de’ dei quello che è motivo de’ loro capricci, danno credito ai decreti, prontezza all’esecuzione, orrore a pensar l’opposito; e facendo imbever questa lor dottrina col latte, usata quanto il cibo, si fa ferma, inseparabile dall’alma. Onde molti son piú pronti a privarsi di questa che di quella: in questa maniera Numa; con questi artifici Licurgo; con tal pretesto Solone e gl’altri piú celebri e piú famosi divulgorono e stabilirono le loro leggi e il regno. ‹… … … … … … … … … … … … … … … … … … … … … …›

E specialmente questo ultimo, che col congresso ostentato di Dio signoreggiò sicuro di popolo discorde, numeroso e ribelle. Egli, con matura prudenza, gl’effetti ordinarli della natura riduceva ad opre mirande di Dio, le ammetteva ai ponti de suoi decreti e ne aveva facile la credenza da gente simplice, idiota e servile.

Se Dio è sempre Dio immutabile e sapientissimo nell’opre di giustizia e di clemenza, onde nasce che ora non punisce quel fallo? È forse egli diverso da quello ch’era? È mutato d’opinione? Ha forse timore di noi? Opure distruggerà l’opra del mondo che egli ha fatto?

Se l’orologio ha il moto dalle ruote e dalli contrapesi che gl’ha dati l’artefice, sarà difetto d’esso orologio che batta l’ore a questo tempo o in un altro? Le inclinazioni sono contrapesi datici dalla natura e da Dio, chi segue quelli non s’allontana dai propri principii, non fa contro l’istitutore.

Or veniamo al particulare dell’alusione di quelli luochi sulfurei, che credo a voi, come agl’altri di mente imbelle, sia di maggior vigore di ciascun altro elemento.

Trovasi dunque tra i confini dell’Arabia e Soria, per naturai misura degl’elementi, per incognito influsso del cielo, a beneficio singulare degl’uomini, un lago immenso di odorifero bitume, che vale a rendere i corpi incorruttibili ne l’arte di medicina, nella contestura de’ navilii e in altri usi innumerabili importanti; gli cede ogn’altra materia; la crassizie lo rende innavigabile e senza fluto; la temperie lo dimostra adusto e arsiccio; e con un misto di pingue aereo è esca attissima al foco. L’aria ambiente, participando per la vicinità de’ suoi accidenti d’intempestivo calore, di molle troppo terrea, infiamma, anzi abbruccia i frutti degl’albori che gli renda convenevolmente maturi; onde si possono piú propriamente dire e chiamare escrementi di focosa materia che frutti legitimi della terra.

Quindi dunque passando il predetto legislatore e ’l suo essercito, addimandato dal ignorante volgo di quelle da loro non piú vedute maraviglie, delle strane qualità di quelle acque, di quel colore, del ardore, e col resto ebbe felice occasione di tesser favola leggiadra e opportuna a’ suoi fini; ed era in quel tempo in stretta necessità di farlo. Onde s’ascriva a prudenza piú tosto politica, che a temeraria menzogna.

Era il suo essercito quasi piú di donne, e queste dal viaggio fatte deformi e noiose: talché erano piú atte a conservar la continenza che per sfogar la libidine; i soldati, pertanto, rivolti con ogni ardore al uso commodo de’ putti, si dimenticavano totalmente delle donne. Il che conosciuto dal savio capitanio, e considerando che in breve il suo imperio sarebbe estinto, o almeno non sarebbe successo ne’ suoi posteri, se con la generazione non si resarcivano i defonti, proibí l’uso de’ putti; e aggionse esser ordine espresso di Dio, e che perciò in quel loco aveva col solfo e con il foco sommerse cinque città, e che quelli erano i vestigi della divina vendetta.

A questo urgente bisogno de’ tempi, con questa vaga allusione, providde e fece leggi contro l’uso dilettevole de’ fanciulli il discreto legislatore. Che se nelle sue schiere fosse stato abbondanza de l’uno e de l’altro sesso, vana saria stata la legge, né esso l’averebbe fatta. Anzi, i suoi posteri nella regia città, vicino ad un loro famosissimo tempio, edificorono publiche case alli fanciulli per questo effetto; e ne fu capo il piú saggio, il piú pregiato di quella nazione.

Ed è pur cosa notabile che di tanti diligentissimi, famosi e universali scrittori de’ nostri Greci, non vi sia pur uno ch’abbi fatto menzione de cosí strano e portentoso caso.

– Forse – rispose Alcibiade – perché essendo costoro del umor vostro, non volsero per loro interesse toglier questo diletto agl’uomini col spaventarli.

– Non è verisimile, figlio, quello che voi opponete, s’avessero creduto esser un flagello divino questo diletto vietato e punito da Dio al cui impero ogni cosa soggiace, come per non cader nel suo sdegno e per non esser stimati rei d’un tacito fallo. O almeno, se tanto avesse potuto l’ostinazione, per serbarlo solo a se stessi, col spaventar gl’altri in un tempo, s’averebbono fatti giudicar pii, e si averebbono posto in possesso sicuro di questo impero, perciò ne averebbono empiuti i volumi, nonché le carte e i fogli. Il che è piú agevolmente da credersi, ché alcuni di essi preposero la vita al vero, e furono di costumi integerrimi e osservantissimi del giusto; perciò dunque non ne scrissero, perché non vi era alcun fondamento di verità, sopra la quale la loro scrittura si stabilisce.

Anzi, l’auttor di questa invenzione, parendogli esser troppo rigore di porre in precetto quel che aveva inventato per amplificazione e per terrore nelle sue leggi scritte, non dice che per l’uso simplice de’ fanciulli fossero le predette città sommerse, ma perché erano impie, crudeli, avare, rapaci, violente; e che l’ultimo della loro ruina fu la violenza che volsero usare agl’angeli. E cosí mancò poco che non ritrattasse con questa limitazione quel che pareva di voler vietare del tutto: fu dunque castigata la violenza, non il piacere; la crudeltà, non l’amore; l’inumanità, non gl’amplessi. Dico però alludendo alla favola, non al successo.

E invero la violenza è fiera omicida dell’anima. Consiste questa in esser clemente, in esser libera: chi dunque a questo s’oppone la disnatura e l’annulla; però anco alle publiche meretrici è pena di vita usar violenza o sforzo, seben nel resto son meretrici mercenarie e vilissime. Dove dunque è commune e uniforme il consenso, ivi bandita la violenza e vi entra amore, pace, naturalezza e incentivo di lode. È tirano l’uomo violento; questa violenza è aborrita dalla natura e da Dio, l’assenso è da l’uno e da l’altro gradito. E nelle leggi pure del predetto duce, ed esposte da persone stimate da quella gente sapientissima di spirito e di profetica intelligenza, vi è espresso un decreto in cui uno di essi singularissimo, che vantava ed era creduto aver comercio con Dio, minacciava castighi per i delitti del popolo: e quando gionge all’uso dei putti, non si lagna egli di questo, ma rimprovera per sceleraggine quella ch’abbino lasciati i fanciulli della loro nazione per gl’esteri. Et pueris alienis adheserunt, dice egli rimproverando. Se è delitto il lasciargli, è dunque merito e atto virtuoso il seguirli; e dovendosi prima l’amor ai suoi che agl’estranei, abbandonar quelli per questi è contro le leggi della natura. Talché, riprendendo egli mischiarsi con altri, vuole che si usi con i proprii. Ma se le leggi umane, fatte da chi si voglia, si riducono alle universali, infallibili, di natura, trovarete piutosto ordinato che proibito l’uso dei fanciulli da essi. Ed ecco ne vengo alla prova.

Chiamo leggi di natura, per procedere in negozio cosí importante distintamente, quelle che dal lume dell’intelletto sono a ciascuno degl’uomini, di qualsivoglia setta o nazione, naturalmente, senza artificio, sino dalla culla inserte; e approvate con universal consenso da tutti, e da’ piú savii e da’ piú giusti. In due parti principali si dividono: l’una conscerne l’onor di Dio, l’altra la benevolenza ed equità del prossimo; e le fanno in questo modo.

Amar Dio sopra ogni cosa; il prossimo come se stesso: overo non offender Dio né il prossimo. Or questi due precetti, se in effetto son diversi, non deve l’uno contenersi né confondersi con l’altro, perché il contenuto e confuso non averebbe esser distinto, sí che sarebbe un solo. E se fosse l’istesso il non offender Dio né il prossimo bastava dire non offender Dio: sono dunque indubitatamente distinti, né l’uno dipende né appartiene all’altro. Or vi dimando: se il vostro prossimo si contenta di quello che voi volete, ha grato e resta sodisfatto, e tallora beneficato, si potrà egli chiamar offeso? Si sarà trasgredito il precetto? Potrassi chiamar oltraggiato? Vi citterà in giudizio?

– Anzi – rispose Alcibiade – si sarà adempito il precetto, e si averà meritato piutosto; e stimo tanto diverso dal doversi chiamare offeso costui, quanto sarebbe il donare dal rubbare.

– Benissimo concludete – rispose il maestro – ma se cosí è, che un fanciullo si contenta di far copia di se stesso a chi lo brama, e ne prende diletto e utile, si è qui offeso il prossimo? Chi direbbe queste pazzie? E se dal libero albitrio, dono regale di Dio, dipende il volere e poter far ciò che piace del suo, perché non si può di questo? Chi può prestar una casa, un cavallo, un cane, perché non le sue membra? Chi è tiranno sí empio che donando la libertà ad un suo servo, gli proibisca l’uso? Ci averà dunque fatti liberi Dio perché siamo schiavi delle nostre passioni e dell’eccesso sregolato di esse? Egli dunque, nella tempra che ha data al nostro frale, vedrà languire le cagioni, riprenderà quel ch’è suo? O forse ha pena del nostro bene? Invidia il nostro diletto? Se alle calamità umane non si dà refrigerio con piaceri, gl’abitatori del mondo saranno pregionieri di Pluto. Non saria re degl’animali l’uomo, ma epilogo d’affanni e di tormenti. Non turbi dunque il glorioso dell’alma vostra la bassezza di questi sensi, di queste goffe credenze.

– Perché dunque i fanciulli che alli piaceri degl’uomini condescendono con obbrobrioso nome di bardassi vengono dispreggiati e stimati infami? E se è vero quanto voi dite, forse l’uso commune degl’uomini non ha preso il vigor di parlare dall’esperimento del vero. Levatemi questo dubbio –, disse Alcibiade.

– Questo nome di bardassa – rispose il maestro – non conviene né deve darsi, e in effetto non si dà, a fanciulli che per termine d’affetto e di cortesia fanno graziosamente copia di se stessi agl’amanti civili e meritevoli. Come non si dà titolo di meretrice a quella vaga donzella amorosa che per sodisfare alle leggi d’amore benignamente soccorre all’amante: anzi, è cosí fuori del ragionevole e del giusto, che in loco di questi indegni epiteti, da persone sapienti e discrete, son chiamati divi e dive, redentori delle umane afflizioni, restauratori degl’animi cadenti e afflitti. E da molti supremi principi gli sono stati eretti altari e tempii, dedicatogli sacerdoti e offertogli sacrificii e incensi, delle quali cose sono piene l’istorie de’ greci e de’ latini scrittori. Il bardassa vuol propriamente dir putto mercenario e venale, che solo per simplice mercede, quasi un tanto per misura, vende se stesso, né altro attende che il guadagno servile. È tanto differente un putto amoroso e gentile dal mercenario, quanto sarebbe un venerabil sacerdote da un vituperoso simoniaco; l’uno e l’altro è sacerdote, l’uno e l’altro amministra gli stessi officii sacerdotali: ma il primo nel ministerio attende l’eccellenza dell’opre, la grandezza del suo officio, il compiacimento spirituale del popolo, il debito delle divine leggi; l’altro l’utile, l’interesse e il guadagno. Onde è sacrosanto il primo, infame e detestabile il secondo. Le cose di alto preggio non devon esporsi alla viltà del prezzo: e qual cosa piú preggiata e piú degna degl’amorosi putti? Glorioso e divino fanciullo, che senza fine di mercenario interesse beatifica gl’uomini in terra; vil mercenario infame, che a prezzo vende se stesso, che dal esser giardiniero e tesoriero delle gioie d’amore diventa vil macelaggio delle sue proprie carni.

– Non è forse ragionevole – rispose Alcibiade – che riceva beneficii chi ne fa altrui? Che resti sollevato ne’ suoi bisogni chi è pronto a servir altri? Perché dunque un fanciullo, senza cascar dal glorioso nell’immondo, non può ricever dinari da chi riceve tanta dolcezza da lui?

– Fanciullo mio bello – rispose il maestro – altro sono i mercati, e altro le cortesie. Non è mai sí ricco né sí potente l’uomo che a certo tempo non abbia bisogno dell’altro uomo; e chi fa beneficii ne attende ancora. Sia dunque dall’amante benigno sovenuto e regalato l’amato fanciullo ne’ suoi affari; siagli ampiamente liberale e cortese, ma lontano dai termini di convenzione e mercede, né tacita, né espressa.

Amore dà regole in questi casi; egli degnamente e onorevolmente gli sviluppa e rissolve; non si proibiscono i doni e le libere amorevolezze e cortesie, ma la sordida mercanzia. I sacerdoti onorati e dabene vivono pur essi ancora de suoi ministeri, e questi ordinariamente piú opulenti e piú commodi degli venali e mercenarii: e questo perché mercenarii abominevoli, quelli perché buoni e sacrosanti.

I comici, di sua natura oratori ammirabili, se fanno le loro comedie per prezzo sono stimati buffoni vilissimi e infami: e come tali venivano dalle sacrosante leggi delli antichi Romani della sepoltura privati.

– Ricevo sodisfazione apieno dal vostro discorso – disse Alcibiade – ma vi prego spiegarmi se sia maggior il diletto che si prende dal goder i fanciulli di quello si riceve dalle donne, e la cagione.

– Il diletto – rispose il maestro – è quasi un’armonia di varie voci, non ha pienezza in una. Il che è universalmente vero d’ogni diletto, ma specialmente dell’amoroso; se dunque discorreremo di quell’ultimo diletto venereo, di quel compimento di dolcezza, senza guardar le circostanze e il resto, sarà la soluzione in bilancia, perché molti sentenziano a favor delle donne, dicendo che trovandosi nella natura loro un certo natio e ben proporzionato calore, che, accompagnando quel del genitale dell’uomo, agiusta con facilità il coito, condisce e radoppia il dolce, e nel unirsi e baciarsi i sensi, col darsi in una stessa stanza l’albergo, consista il godimento reale. E che essi simboli e legami dell’anime amanti, quasi in compendio raccolte, si participano scambievolmente tutte le dolcezze che da ciascun de’ membri i sensi maravigliosamente raccolgono, e che la virtù unitiva d’amore, in cui la sua stessa essenza consiste, non si sortisca in altra maniera, e la trasformazione, che ardentissima si brama negl’amanti, in altro modo che in questo sia impossibile; anzi, per questo ultimo fine solo procedono gl’avidi toccamenti, e quel desio disciolto di riempir ogni buco, o con mano, o con lingua, abbi il suo termine quivi. E mentre in quell’ultimo conflitto le lingue baciatrici si suggono le amate imagini, si rimirano i spiriti, si respirano a vicenda, con aura di paradiso nel core; e tutti unitamente accompagnano l’interno simbolo amoroso, aviticchiati sono tralci tenacissimi, diventano due corpi in un’anima, non resta mancamento al desio, né cosa punto desiderabile all’aspetto. Le quali nobilissime condizioni non vogliono che possino ritruovarsi nei fanciulli, e perciò non molto gli pregiano.

Ma in costoro l’uso fatto natura, mentre tralasciato il dritto della ragione, gl’insegna discorsi da manuale: non negherei pertanto, per scioglier i loro argomenti, che il caldo che rissiede nella natura della donna non giovi a chi è poco caldo d’amore, che quell’incontro di seme aletti al albergo di giubilo. Chi è troppo timido ha bisogno di conduttiere. Che i baci, l’aspetto, l’aure respirate e gl’amplessi non siano di gran momento in questo atto; e il tutto saria per esse, se con miglior avantaggio non fosse anco nei putti.

Se quel nido d’amore unico e singulare de’ leggiadri amorosi fanciulli non ha il calor delle donne, ha un temperato calore, attissimo refrigerio all’ardentissimo incendio d’amore: gl’ardori si mitigano e si addolciscono con il refrigerio, non con maggior calore. Il concorso de’ semi è materia schiva all’incontro d’intempestiva importuna pioggia, che illanguidisce e annoia; la vasta capacità induce agl’orrori del laberinto, e piutosto a perdersi che a sollazzare. All’incontro, il regolato ristretto, l’attemperato misto di quel fiorito giardino non ha penuria di bene; e l’uso di due altissimi morbidi coscinetti, che ricevete nel seno mentre godete il fanciullo, non prevagliono ad ogni contento? Non dirò che sia, ma che anco possa imaginarsi nella donna? Non vi pare che la natura con il ritondetto molle e delicato de’ quei beati pomi abbia mostrato e insegnato espressamente che abbia con quel commodo e diletto da riempirsi il concavo del vostro seno? E al contrario della donna: se il concavo del suo ventre si unisce con il concavo del ventre nostro, fanno forma di un arco, le parti di cui piutosto da se stesse si allontanano che mostrino perfetta unione, nella qual solamente il diletto estremo consiste.

Né manca nel godimento de’ putti il soave de’ baci, il poter spirar l’aura amorosa nella sua bocca, il convenire e far dolce insieme, se in sito tale si acconci il fanciullo che, rivolgendo facilmente il suo viso al vostro, e avendo piantata la cipolla nel suo giardinetto, opur nelle sue mani, che varii sono in questo gl’umori di questi amorosetti; ove quel poco d’incommodo, senza danno, è condimento alle gioie, non altrimenti che un appetito, over il digiuno, al cibo; e questo accresce il piacere, qual sdegnosetto uccellino, mentre fiero, adirato, stando sul duro, diventa altiero, e in varie fogge si dibatte e adira, or non ci invitta? Or non vi eccita? Non vi addita i colpi? Non v’infiamma d’amore?

– Importa – gli disse Alcibiade – se questi uccelletti di questi nostri fanciulli siano piú d’una forma che di un’altra, quanto al diletto che ne prende l’amante?

– Assaissimo importa – rispose il maestro – deve esser nel mezzo, tra gl’estremi di quantità e di altre condizioni. La troppo picciolezza è segno di frutto troppo acerbo e insipido: onde né si brama, né si ottiene pienezza nel termine; la smisurata molle dà indizio che di capretti siano divenuti becchi: e come quelli sono delicatissimi, cosí sordidi e puzzolenti sono questi; seben non mancano alcuni che, piutosto per mutar vena che per star nell’officio dovuto, di questi hanno diletto maggiore. Ma io non intendo di far il mondo alla riversa. L’esser poi dritto, morbido, bianco, senza peli, con picciole e ritondette balle, è grazia da destillar gl’amanti in sostanza succosa, di simplice cotale. Non disconvengono però quei primi novelli aurei fioretti, anzi, son noncii d’amor verace, che daranno e riceveranno diletto al pari.

Il ritratto ed essemplare naturale de’ piú pregiati uccellini, come in voi de’ piú leggiadri fanciulli, è appunto il vostro, mio amato bene –.

E ciò dicendo, se gl’aventò al collo e alle parti piú interne, piú sitibondo d’un cervo, piú famelico d’una arpia.

Lo risospinse destramente il fanciullo, e gli disse:

– Avanti che altro abbiate da me, desidero che sodisfacciate ad alcuni altri miei curiosi pensieri.

– Commandate – rispose il maestro – e in un tempo stesso compiacerò a voi e a miei desideri.

– Non hanno – ripigliò il putto – anco le donne i pomi, come i fanciulli, e in loco dell’uccelletto, che voi tanto pregiate? E io, in questi congressi amorosi, mentre facessi l’agente non lo stimerei troppo in altri. Non possono tenersi in mano i loro morbidetti pomi delle mamelle, tanto piú cari quanto piú riempiono aggiustatamente le mani? E se tanto in questo negozio vi piacciono i pomi, nelle donne ne avete quattro, per i due de’ fanciulli.

Se un giardino ha frutti che abbia un altro, e inoltre degl’altri ancora, non doverà piú stimarsi? In quello dei putti avete il persico, solo frutto veramente gradito come quel delle donne fanciulle, oltre di questo avete il fico, che nel soave non cede né al persico, né ad altro frutto.

La vasta capacità, ch’assomigliate ad un intricato laberinto, non la stimo né universale, né vera, ma che si trovi solo in alcune, per esser troppo communali, o per età troppo mature, o per figliare; ma nelle fanciulle penso tutto il contrario.

Cosí l’acqua che vi è, che voi vi presentate stomachevole, non lo credo almeno in questo eccesso; e se invece d’acque, nell’usar con fanciulli, uscisse, come di fonte natio, puzzolente merda, che direste allor voi? Sarebbono queste l’ambrosie? Trovareste l’odor del muschio nel fetido del sterco? La porta di gaudio nella zangola? Son forse queste cose imaginarie o reali? Me le sogno o son vere? Che dite signor maestro?

– Dall’intelletto vostro divino procedono speculazioni veramente divine e degne di voi; non già cosí fondate che non abbino risposta e fondamenti piú saldi – disse il maestro – vi rispondo pertanto a parte a parte.

L’aver le mamelle in mano, e l’aver l’uccelletto d’un fanciullo, è differente quanto una cosa disanime dall’animata: quelle senza moto intrattabile, questo mobile e vezzosetto; stanno quasi essanimi, senza moto, le mamelle, si riscote, si dimena, giostra e accenna i moti, piange, ride soave, applaude, concorre con voi al principio e in tutto al corso amoroso l’uccelletto del putto; paiono le mamelle, da quelle d’alcune donzelle in poi, vesicche ripiene d’aria, borse vuote, sacchi pendenti, incentivo piutosto di schivezza che di trastullo. E forse il fanciullo di buona disposizione non ha egli le sue mamelline, e seben picciole sono altretanto piú belle e piú pregiate, come è piú vaga la rosa in boccolo che nella sua propria apertura.

Il giardino che contiene varii frutti di differente sapore, se vi concede sol quei che agl’altri cedono di bontà, con proibirvi i megliori, vi reca non gioia, ma pene. La donna non dà volentieri i suoi pomi, non apre volentieri l’orto del giro, perché le sue voglie sono altrove: il suo piacer l’attende dalla natura, cioè a dire nella potta, talché è di gusto amaro; e quando anco volessero, è cosí differente il dolce di quello da questo, come la carne di vacca da quella di vitello. Nel modo dunque che il gusto accuratamente distingue nel cibo, in alcuni ritrova il dilettevole, in altri l’abominevole: ogni parte, ogni boccone di vacca è di vacca, e quello di vitello è vitello. Cosí il tatto ne’ piaceri amorosi.

L’acque poi, e l’ampiezze vastissime piú che l’oceano, nelle quali non si trova fondo, rispondo: è cosí commune a ciascuna come l’esser femina; e dalla prima volta in poi, che anco quella è piena di violenti rammarichi e gridi, non credo si trovi altra sostanza. E le sordidezze che apportate nei putti, o putto mille volte benedetto, è pensier vano e sogno, appunto come diceste: i putti civili e ben nati sono cosí lontani da dar segno di sordidezza che anzi, con odoretti di temperati calori vitali, profumano il fumante cazzo, che scapellato e contento vien trionfante da l’amorosa guerra odorato e fragante d’odori grati sabei; e sebene si ricevesse alcun odore, o si rilasciasse alcun segno reale impresso del goduto giardino, sarebbe non nausea, non schivezza, ma ultimo compimento del desio. Chi brama il melone non schiva il sapore e l’odore di esso; e ogni circostanza, se ha da esser perfetta deve ritenere i proprii accidenti: da pane il pane, da vino il vino, e i suoi proprii profumi d’ambra e di natio zibetto dal bel pesco.

E io so che persona saggia e provata, dilettandosi lambirlo soavemente, mentre dal suo proprio discreto fanciullo il trovò asperso d’acqua rosa, sdegnoso si rivolse adietro e desisté dall’opera consueta. « Vengo – disse – a goder del tuo bel fiore, con quanto ha egli dalla natura. Non ho voglia d’acqua lanfa, che anderei da profumieri ». E tra mille non si troverà uno ch’abbia difetti notabili in questo, e ve ne parlo per prova. Perciò il discreto amante de’ fanciulli non ha da esser indifferente con tutti, non ha da ricercar per suoi godimenti ognuno che sia putto, che abbia chiappe e forame, perché quei che sono pomi in alcuni, in altri sono sponghe e vesiche, e non hanno giardino di godimento, ma latrine sordidissime d’immondizie. Deve dunque esser nobile, civile, adorno, ridente e senza macchia il fanciullo amabile: né sarà preggiato, se non fia tale.

E se casca da queste condizioni, sarà abominevole senza misura: la corruzione del ottimo è pessima. Nelle cose che possono trovarsi i difetti della natura s’ha da ingegnarsi di toglierne anco i segni: e dove è piú di sporco, ivi, con l’industria, deve ecceder il netto e il polito. S’assomigliano i putti, in questo proposito, alli colombi, cievali, meloni: questi, nella loro bontà, sono esquisitissimi e gratissimi tra gl’altri cibi; ma nel esser questi acerbi, o fragidi, magri e da rio, non si trova cosa piú stomachevole né piú vile. Ma dato che alcuno di questi difetti si ritrovasse in qualche putto novello, per povertà ridotto a qualche termine d’immondizie, o per inesperienza, il tutto è nulla, in comparazione degl’intrichi, de’ mestrui, e delle conseguenze pestifere delle donne.

– Ditemi di grazia signor maestro – disse Alcibiade – per qual causa la donna stima di tanto preggio la sua fica, ed è di natura cosí altiera e indiscreta.

– Ciò procede – disse il maestro – perché, compiacendo all’uomo, pretende subito acquistar sopra di lui imperio dispotico e assoluto; e fatta, se fia possibile, tiranna, inumana ed empia, di dinari, la roba, la libertà, la fama, la vita, stima poco compenso a’ suoi meriti; fa che tra loro s’amazzino gl’amanti; trofei ordinarii delle lor glorie, gl’incendii, le ruine, le dessolazioni delle città e de’ regni nascono dalla perfidia loro.

Ma che direte di questa? Sarà vilissima contadina, lorda, stomacosa, usa a mangiar polenta ed erbe, bever acqua, dormir sopra la paglia, star in conversazione con le bestie, che non sa distinguer da’ cazzi degl’uomini quei degl’aseni; se per sorte cade nelle mani di qualche balordo, che per mutar pasto mangeria delle poma marce e di lupini, seben costui fosse un gentilluomo, pretende di divenirli sposa. E se questo esser non possa, d’esser almeno maritata con qualche cittadino, o mercante, con dote grande. Altrimenti minaccia citarlo in giudizio: sa dir ch’era vergine sacrosanta, di buona stirpe, discesa di sangue illustre, seben il caso repentino l’aveva in quel ponto mostrata povera; che li è fedelissima, che lui solo la tocca, con tutto che spalanchi la sua bruttissima potta a tutti che hanno cazzo, alli cuocchi, alli sguattari e alli staffieri; che non è neanco nata donzella, figlia di ruffiana sfregiata.

Femine dico, di questa sorte, han le pretensioni dette. Che ve ne pare? Sono bocconi da desiarsi? Deve impiegarsi un uomo generoso in queste? Sono soggetti d’amare? Né credete che ciò sia vano: son cose frequentissime, e potrei di prattica numerarvene le centinaia, ma per non reccarvi tedio non vi tesso istorie piú longhe. Vi sono uomini di molto ingegno che ne hanno scritti i volumi, ma ogni eccesso de’ scritti è superato dai lor fatti: mai non si cessarebbe di scrivere apieno, dove elle non cessano di operare. Forse se ne ritrova alcuna buona saria miracolo: né di tanti conosco alcuno a’ miei giorni che si sia lodato di tal ventura, d’averne trovata una buona.

All’incontro, chi si lamenta de’ putti? Che male fanno essi? Quali ruine, o quali oltraggi apportano giamai, se non fu per caso, se non per accidente stravagante? E come è miracolo nelle donne il non esser di ruina e di pena, cosí è raro l’esser tale nei putti.

Ma veniamo ad altri particulari. La secreta conversazione con esse, non potendo star occulta e secreta, per la diversità del sesso e di abitazione, vi rende appresso ognuno di cattiva fama, di vile ed effeminato, scioperato e poco prudente. Ricercano costoro tutto l’uomo, e non basta: onde bisogna lasciare i negozii serii e perder se stessi; già vi ricercano per ogni cantone, vi fanno la spia per ogni loco, vi proibiscono di conversare con tutte le vecchie, stimandole vostre ruffiane. E cosí parimenti i vostri amici, le giovani vostre puttane, i fanciulli vostri bardassi; sí che vi sforzano separarvi da tutti e stringervi seco solo, che non è altro che metter insieme un cane e un serpe in un sacco, come si usa con i parricidi.

Ma il dolce stesso che si prende da esse è amarissimo, per gl’escrementi focosí e venenosi del mestruo: sono cagione di putredine, di ulcere, di tarali, di piaghe e altri mali infiniti, che perciò li puttanieri son sempre infermi e infami.

– Prendete moglie – soggionse il putto – e cosí oviarete a tutti i sudetti mali, averete commodo e continuato diletto.

– Deh, Alcibiade mio caro, il cibo continuato senza variazione fa nausea, di modo che vi induce a morir di fame e di desire. E poi per diletto sí facile, per piaceri cosí communi, per dolcezze concesse sino alle mosche perder se stesso? Privarsi della miglior parte dell’anima, della libertà, che sono incomparabili? E chi non è in stato di prender moglie? E chi anco vi fosse, come gli saria facile poi e possibile d’imaginarsi fare ogni volta che averà desiderio di diletto correr a prender moglie? Le parentelle, o contratti, le doti, le circostanze, i cognati, si stamperanno ad ogni rizzatura di cazzo quattro o sei volte al giorno. Lascio di dirvi poi che non sia gran cosa mutar la natura umana insensibilmente in quella di bestia cornuta: essendone già l’uso universale, non celebrandosi nozze non dirò, ma noie, senza gl’auspici del capricorno, nutrir col suo sangue muli che vi tirano calci e vi struppiano.

– Per queste cagioni – replicò Alcibiade – niuno prenderebbe moglie giamai; epur si vede tutto il contrario.

– Se la natura – rispose il maestro – avesse permesso che tutti fossero speculativi, le sue azioni, che hanno le radici dai sensi, resterebbono calpestrate; aggiongete poi che alla diversità degl’ingegni seguono pareri ed effetti diversi; quei pochi dunque che hanno spirito filosofico ritengono piena cognizione di questi negozii, fuggono questi legami di moglie, che con facelle accese conducono, come sapete, li nostri Ateniesi in casa, per dimostrar l’incendio di quella casa infelice ove entrano.




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Sources

  • La première version de cette page a été partiellement récupérée de Wikisource en italien [1], le 30-10-2009 (crédits : voir historique).